Paradigmi in controcorrente su diritti e meriti.

Noi incurabili ottimisti che crediamo nel progresso, sosteniamo che esso deriva dal superamento di paradigmi consolidati con l’introduzione di parametri nuovi. Dunque, il perenne moto dell’evoluzione,  al parziale o totale abbandono di criteri, anche antichi ma obsoleti, si sostituiscono paradigmi innovativi, fino a quel momento sconosciuti.  Pertanto, il progresso non consiste solo dell’elementare accumulo e conservazione di esperienze, anche perché tutto si muove e noi cambiamo in funzione di ulteriori lezioni apprese dalle nuove osservazioni; così, cambia pure il nostro modo di concepire e di considerare la realtà che si sviluppa attorno a noi; allora, con il passare del tempo, ci si adegua a nuove consuetudini che ci guideranno nel proseguimento della nostra vita.

Perciò, la visione che abbiamo cambia, come cambiano le circostanze. Il concetto dovrebbe valere pure per gli ambientalisti; infatti, cambiano anche, e soprattutto le condizioni meteorologiche, a prescindere dalla presenza e dall’azione umana, dipendendo le condizioni climatiche dell’attività della “divinità” del Sole. E se non sono mai certe le previsioni del tempo a corta scadenza, a maggior ragione non possono essere sostenute quelle teoriche a lunga scadenza. Ecco perché – da sempre – cambiano anche le temperature sulla Terra, come stanno cambiando pure su Marte, non potendo gli avversari del modello produttivo della modernità accusare di tale responsabilità l’iniziativa privata, il consumismo, gli sprechi o più specificamente il Capitalismo. È una realtà che sembra sfuggire a molti e viene ignorata o volutamente omessa perfino dalla cupola della nostra Chiesa, dove, in maniera quasi ossessiva, questo papa politicamente orientato, nel tentativo di imporre i suoi discutibili criteri dottrinari, non perde occasione per imprecare contro quelli che, in fondo, sono fenomeni e principi del tutto naturali. Dunque, mi pare che farebbe meglio se si limitasse al vero messaggio di Gesù, dedicando i suoi proclami alla propria missione evangelica, pensando piuttosto alla salvezza spirituale dei suoi devoti, invece di ostinarsi a condannare faccende politiche, sociali, economiche di natura mondana.

Ecco che il costante cambiamento del modo di interpretare la realtà, alla quale ci si deve adeguare, costituisce la vera “Rivoluzione”; quella che ha fatto uscire l’umanità dalle tenebre, liberandola dall’ignoranza e dalle superstizioni del mondo primitivo. Ed è da queste mutazioni che deriva un concreto incontestabile benessere mai conosciuto prima. Ecco che gli individui, resisi più liberi di fare le proprie scelte e di perseguire le proprie ambizioni, oggi, possono scambiare conoscenza, beni e servizi in tempo reale, grazie ai quali, a poco a poco, si sconfiggono non solo vecchi preconcetti ma soprattutto la miseria. Sbaglia anche l’economista francese Piketty che sembra invertire inoppugnabili valori reali, visto che oggi le persone più umili, in quasi tutto il mondo, vivono molto meglio che in qualsiasi altro periodo del passato. Non è assolutamente vero che l’ingiustizia nel mondo stia aumentando, al contrario. Ciò che scrive più che equivoco è del tutto falso e semplicemente assurdo. A confutarlo basta la lettura de IL MISTERO DEL CAPITALE dell’economista venezuelano Hernando de Soto, da me recensito in queste pagine sotto il titolo Valore e Capitale Umano.

Molti degli equivoci sostenuti da chi avversa le iniziative private partono dalle tesi del valore intrinseco del lavoro, che invece è sempre relativo.  Marx – discreto storico ma mediocre teorico economista – ignorava il che il principio era viziato alla sua origine. Infatti, per fare un esempio, il valore sostenuto per produrre frigoriferi per gli Eschimesi non può essere lo stesso di quello attribuito da chi vive ai tropici, come il valore per produrre stufe da riscaldamento destinate agli Scandinavi è assurdamente superiore a quello di stufe per chi vive all’equatore; analogamente, l’acqua nel deserto – per i Beduini – varrà di più del migliore whisky scozzese… Pertanto, il valore del lavoro dipende dall’utilità, a seconda dell’abbondanza o scarsità dei prodotti o servizi, condizionati dalla domanda e dall’offerta.

Fortunatamente, la storia si è incaricata di confutare gli sbagli del Collettivismo, come, con enorme anticipo, lo aveva previsto l’illustre economista della Scuola Austriaca, Ludwig von Mises, avvertendo, nero su bianco, già nel 1922, con il saggio dal titolo SOCIALISMO che all’infuori di un mercato aperto il calcolo dei costi non si sarebbe potuto fare; infatti, all’infuori di un Ordine Spontaneo, del mercato libero non era possibile stabilire il valore giusto dei beni e dei servizi. Non per niente, dopo circa settant’anni di disastrose esperienze, gli eventi gli avevano dato ragione. Perciò, chi stabilisce il valore di qualsiasi bene o servizio, di fatto, non è un Grande Fratello – per dirlo con Orwell -, bensì le nostre mamme e consorti, al supermercato, dove liberamente scelgono dagli scaffali ciò che considerano più conveniente in un dato momento e luogo. Dunque, è la somma di queste imprevedibili scelte che formano le tendenze del mercato, a prescindere dalla volontà di autorità o delle stesse industrie che per ventura pretendano imporre i propri dettami.

Uno degli equivoci più comuni che sconfessano le verità rivelate dei collettivisti, è di considerare la ricchezza come una torta finita e che gli individui con un maggior numero di fette e magari più grandi, le avrebbero a scapito di chi ha fette più piccole od affatto alcuna.  È una concezione assurdamente semplicistica che ignora il valore aggiunto.  Infatti, la torta della ricchezza aumenta con la produttività, con l’apporto del capitale umano, per iniziativa di individui intraprendenti. Perciò, nella misura in cui si produce di più e meglio, risparmiando materia prima ed ore impiegate, c’è un risparmio che genera aumento delle dimensioni e del numero delle fette da distribuire. Con migliore produttività, generata dal successo e dalle preferenze si riducono anche i costi, aumentando il potere di acquisto dei consumatori. Con il risparmio di materie prime e delle ore di lavoro, è possibile soddisfare ulteriori consumatori, producendo altri prodotti e servizi.

Solo un secolo fa pochissimi possedevano autovetture; oggi, nelle zone industrializzate, solo poche famiglie non ne posseggono almeno una. Ora, il problema è la circolazione, perché strade e parte della mobilità sono controllate politicamente dal potere pubblico che, come tutti sanno, è un gestore mediocre. Se si desse retta a chi preconizzava la privatizzazione dei servizi oltre un secolo e mezzo fa, un precursore del movimento libertario, Fréderic Bastiat, autore – fra l’altro – delle ARMONIE ECONOMICHE, non avremmo governi asfissianti che ingessano l’iniziativa dei migliori imprenditori. Infatti, ultimamente, con un lieve ritardo di circa 150 anni, dinanzi all’incompetenza di governi spreconi, a poco a poco, il mondo si sta accorgendo come sia meglio cedere ai privati la maggior parte dei servizi considerati pubblici; così, educazione, sanità, sicurezza e perfino dispute giudiziarie – attraverso arbitrati -,  sono affidati ai privati che li gestiscono con maggior dinamismo e responsabilità, meno burocrazia, minor indifferenza, maggior maggior interesse e competenza ed a costi inferiori.

Pertanto, chi attribuisce al Capitalismo responsabilità per il presunto – ma falso – aumento del numero di poveri a vantaggio di un sempre minor numero di ricchi, è smentito dai fatti. Lo dimostra pure un singolare fenomeno che sta diventando quasi un’epidemia: il continuo aumento degli obesi nella maggior parte dei Paesi, i cui giovani non ingrassano di certo per effetto della crescente fame dei sempre più numerosi poveri a favore dei pochi ricchi. Ciò che avviene, invece, è l’esatto contrario, un numero sempre maggiore riesce ad accedere a più beni e servizi che generazioni precedenti non sognavano nemmeno. Ce lo spiegano – fra i tanti – altri due economisti francesi, sfatando le controverse tesi di Piketty: da una parte Alain Peyrefitte con il saggio dal titolo DU <<MIRACLE>> EN ÉCONOMIE – Leçons au Collège de France, e dall’altra Jean-Yves Naudet con DOMINEZ LA TERRA (Pour une Économie au Service de la Personne). Come negare, dunque, che oggi perfino gli operai usufruiscono di comodità di cui, in passato, nemmeno i sovrani disponevano? Allora, la grande maggioranza, consumava carne solo in rare occasioni, mentre l’abbigliamento – usurato – passava dai genitori a figli e nipoti; e meno di tre secoli fa, nobili e clero, vivevano senza lavorare, mentre, la gente comune – bambini compresi –  lavorava oltre dodici ore al giorno, tutta la settimana, per potersi permettere il solo pane…

Questa è stata la vera rivoluzione. Ed il liberale francese Jean-François Revel, nel suo saggio NI MARX NI JESUS osserva che <<[…] rivoluzionare non è imitare. Non è regolare i conti con il passato, ma con l’avvenire.>> Ecco perché rivoluzionare non è far piazza pulita di un sistema o di ciò che i predecessori hanno saputo organizzare; rivoluzionare è migliorare, evoluire; passare da una situazione consolidata a posizioni nuove in continuo movimento, così come i posteri continueranno a fare. L’economista brasiliano Roberto Campos diceva che <<la migliore ri[e]voluzione è quella che si scrive senza la “R”>>, ovvero l’evoluzione.

Perciò, l’approccio dev’essere concepito diversamente da come i collettivisti propongono, cancellando il passato. Il benessere non dipende solo dalla semplice conservazione, ma dal perfezionamento; dalla continua revisione dell’accumulo di nozioni. E le mutazioni non devono avvenire per induzione coercitiva dall’alto dei pochi detentori di un potere repressivo, ma in maniera spontanea, nel consenso dei molti. Le condizioni di vita, attraverso tecniche innovative, migliorano da sempre, anche se ogni tanto, qualcuno cerca di modificare le regole spontanee della natura, provocando qualche ricaduta. Non per niente, la “Rivoluzione” sovversiva e violenta, così come la concepiscono i collettivisti – dai giacobini ai bolscevichi, ai maoisti fino ai castristi ed oggi dai bolivariani -, è contestata perfino dal noto marxista Premio Nobel Albert Camus, condannato all’ostracismo per aver, fra l’altro, scritto L’UOMO IN RIVOLTA – da me recensito qui sotto il titolo Onestà e Coerenza – in cui egli raccomanda all’individuo di non lasciarsi ingannare dalle certezze o dallo spirito vendicativo che si esaurisce con il sovvertimento della situazione e sfocia nella repressiva conservazione, ma di farsi guidare dalla permanente insoddisfazione come, del resto, suggerisce John Stuart Mill. Dopo Camus il mito della Rivoluzione è stato demolito da un altro ex comunista François Furet, mentre prima di loro lo avevano già fatto Edmund BurkeBenjamin Constant, Jules MicheletAlexis de Tocqueville ed Edgard Quinet per citare solo alcuni importanti autori.

Pertanto, è il progresso delle “rivoluzioni” pacifiche che ha consentito di migliorare la nostra esistenza. Nel campo delle fonti energetiche, per esempio, partiti dal combustibile vegetale (con la raccolta manuale di legna da ardere), si è passati ai combustibili fossili (carbone, petrolio e metano estratti perfino a migliaia di metri di profondità); poi, dominando l’energia nucleare, oggi si stanno perfezionando le fonti energetiche rinnovabili e sostenibili (idrica – moto ondoso compreso -, solare, eolica, geotermica, biomassa ecc.), mentre ormai si è in attesa di mettere a punto lo sfruttamento razionale e sicuro dell’energia del futuro, dell’idrogeno, pressoché inesauribile. Generare energia ha permesso lo sviluppo dell’automazione con cui sono aumentate le libertà individuali in modo esponenziale. Pertanto, il sogno di Marx forse non sarà più lontano; sarà l’era in cui l’umanità potrà godere il massimo del tempo libero, scegliendo di lavorare poco e dedicarsi molto di più alla pesca od agli svaghi; e senza coercizioni o privazioni delle libertà individuali che egli riteneva la fase necessaria per giungere alla totale liberazione, eliminando la proprietà, sperimentata da LeninStalinMao ed ancora in corso a Cuba dei fratelli Castro con la meta finale dell’utopia del Comunismo, delle devastanti conseguenze che oggi conosciamo…

Il rapporto produttività e lavoro – macchine/uomo – subirà grandi cambiamenti e bisognerà adeguarsi ad essi con attività oggi non ancora del tutto consolidate. E, grazie allo sfruttamento delle nanotecnologie, ci saranno sempre più numerosi tecnici addetti al perfezionamento ai metodi e processi anche per la riduzione degli attuali sprechi: dell’acqua, delle energie e dei materiali – alimenti inclusi. Poi, con l’enorme aumento della durata della vita, avremo bisogno di un crescente numero di assistenti agli anziani (non saranno le macchine ad accudirli); di specialisti destinati al tempo libero, allo svago. In fine, dinanzi al maggior tempo disponibile, non è improbabile che si allunghino gli anni di studio, di preparazione dei giovani al lavoro. Pertanto,  per dare un po’ di ottimismo ai pessimisti di turno, forse, sarebbe utile la lettura di autori come Oscar di Montigny convinto – come me – che viviamo il migliore periodo della storia umana. Inoltre, il “futurologo” americano Ray Kurzweil che, se per certi aspetti, forse, esageri un po’, conferma la molto probabile allungata longevità degli umani, fornendo un altrettanto interessante quadro di come si potrà presentare il nostro domani, grazie all’esponenziale sviluppo tecnologico che ci attende...

E fra le distinte tecniche che ci riguardano da vicino, forse, la medicina è quella più importante; da fragili umani mortali, soggetti ad ogni genere di minaccia alla salute, abbiamo imparato a difenderla e ad allungarla continuamente. Ma come  Pascal osservava, la nostra sopravvivenza, appesa per un filo, è in perenne pericolo, visto che la nostra longevità  può dipendere da una semplice puntura d’insetto, capace di comprometterla. I romantici nostalgici, accoliti di certe tesi, ostinati a condannare la modernità, esaltano il ritorno addirittura al presunto passato del mondo del mitico Buon Selvaggio di russoniana memoria. Invece, il mondo moderno non è una disgrazia, ma un vero miracolo in costante evoluzione. I dogmatici indottrinati che condannano il consumismo, l’industrializzazione e che auspicano di reinventare certi  idillici immaginari modi di vita, in un fantasioso paradiso terrestre, dimenticano com’era di fatto la vita nell’antichità.  Del resto, la favola che i primitivi sarebbero stati migliori di noi, è solo una una chimera piuttosto bizzarra utile solo a certi ingenui idealisti.

Ho avuto l’opportunità di conoscere un po’ come si viveva una volta, avendo lavorato come guida in Africa Centrale, quando portavo i turisti a conoscere villaggi in cui solo qualche decennio prima – in pieno secolo XX – i cosiddetti buoni selvaggi praticavano ancora il cannibalismo. C’è voluta anche l’etica del Buddha e di Gesù per renderci migliori. Quindi, posso sostenere che grazie al progresso quei “buoni selvaggi” si erano convertiti alla civiltà, adottando metodi più umani, meno crudeli e primitivi. Ai turisti quelle visite piacevano molto… Oggi, a differenza di allora, magari, condizionati dalla modernità di una relativa abbondanza, i loro figli invece dei ventri  gonfi – per effetto della bilharziosi addominale – oppure per il gonfiore delle gambe – dovuto all’elefantiasi, in seguito alla filariosi linfatica –, si vedono bambini grassi per eccesso od errata alimentazione. Ed a prova dello straordinario sviluppo del benessere del nostro tempo, constatiamo come la medicina, in meno di un solo secolo, sia progredita di più che nei millenni precedenti. Si pensi solo ai progressi proporzionati già oggi  con le cellule staminali. Non per niente, una volta, nell’antichità, in pochi superavano la trentina di anni, gli altri perivano prima di completarli; invece, domani non ci si meraviglierà se la vita si allungherà fino a cento e cinquant’anni e, probabilmente, anche liberi dagli effetti come l’Alzheimer ed altre demenze senili che oggi tanto affliggono molti nostri anziani.

Ma niente allarmismi apocalittici come quelli delle tesi pessimiste teorizzate da Malthus e dai suoi seguaci, secondo cui, gli aspiranti indovini prevedevano carestie e pauperizzazioni già ai nostri tempi. A sentire loro, l’umanità era destinata a morire di fame per l’impossibilità del pianeta Terra di sopportare tanta gente, incapace di produrre i necessari alimenti. Curiosamente, in molti Paesi si perdono, si sprecano e perfino si gettano enormi quantità di alimenti non solo per interessi economici o precaria conservazione, ma perfino per puro spreco sulle tavole dell’abbondanza della nostra società del benessere. Anzi, riusciamo a produrre sempre di più di quanto si consumi; ciò, grazie a tecniche con le quali la produttività è in costante espansione. Basta leggere le pedagogiche descrizioni di Richard Critchfield nel suo oltremodo eloquente saggio VILLAGES – (si veda in queste mio sito la mia recensione dal titolo Profezie e Rivoluzione Verde). Infatti, l’importante agronomo – Premio Nobel – Norman Ernest Borlaug confermava come nell’agricoltura i perfezionamenti tecnici non si erano affatto esauriti. Del resto, lo conferma l’assioma di Popper, secondo il quale, la scienza non si esaurisce, proprio perché la conoscenza non ha fine. Allora, si può sperare di vivere sempre meglio e più anni, malgrado il pessimismo del neo-malthusiano Paul Ehrlich – già confutato dal giovane economista Julian Simon con il saggio LA SFIDA. Non a caso, il Dio Natura” è saggio: per compensare la longevità delle specie, le rende anche meno feriti e meno prolifiche; lo si vede dai pesci che, per la loro breve e precaria sopravvivenza, producono migliaia di uova, mentre la fecondità dei longevi elefanti è ridotta; così, nel caso specifico, fra noi umani sono sempre più frequenti gli individui sterili. E lo confermano diversi studi pubblicati dallo HUMAN REPRODUCTION UPDATE, fra i cui del ricercatore israeliano Hagai Levine, secondo i quali la fertilità maschile si sta riducendo in maniera notevole, essendo evidente che negli ultimi quarant’anni la concentrazione degli spermatozoi nei maschi occidentali si è ridotta di oltre il 50%.

Eppure, c’è chi con lo sguardo strabico sinistro punta il dito ad un mondo visto alla rovescia in cui un vero esercito di idealisti e pessimisti alimenta una mentalità totalmente equivoca. Non è una novità; infatti, gli accoliti del collettivismo – anche individui colti ai quali il pensatore francese Raymond Aron aveva dedicato il saggio L’OPPIO DEGLI INTELLETTUALI -, credendo di poter modificare per decreto la natura umana, pretendono applicare le ricette del Socialismo per rimediare alle ingiustizie aleatorie con altre ingiustizie volute. Tuttavia, per fortuna dell’umanità, l’evento della caduta del Muro della Vergogna di Berlino, ha interrotto i deleteri esperimenti quasi ovunque. Infatti, fino al 1989 i gregari dell’ideologia, gestivano un modello economico pianificato politicamente, dove pochi, in base a convinzioni soggettive, si erano attribuiti la messianica missione di potersi imporre alla maggioranza repressa, togliendo agli individui ogni legittima prerogativa di scelta. Così, sovrani cittadini erano ridotti alla condizione di sudditi, spogliati dalle loro legittime aspirazioni, ambizioni e responsabilità, indotti alla semplice militanza in un sistema dove i molti dovevano obbedire alla cupola di pretesi saggi, detentori dell’esclusiva prerogativa di badare ai presunti interessi della collettività.

Ebbene, i socialisti, dopo aver subito l’inevitabile disfatta, nell’inutile tentativo di dare una sopravvivenza alle proprie teorie contrarie al cosiddetto Capitalismo, ora, si rifugiano in altri movimenti di contestazione, apparentemente liberatori ma che, di fatto, sono solo nuove specie di religioni per imporre i propri preconcetti. Emblematico è l’esempio del movimento ambientalista, oltremodo bene descritto dall’ex presidente ceco Vaclav Klaus nel suo illuminante saggio  PIANETA BLU, NON VERDE, da me recensito qui, con il titolo Dati Concreti Contro Dottrinaria Retorica. Ma non sono solo gli ecologisti che intendono imporsi alle grandi moltitudini; altri movimenti di minoranze aggressive, di anarchici e sindacalisti che si accomunano nelle loro più diverse discutibili dimostrazioni pubbliche chiassose, dove prepotenti gruppi minoritari invadono strade e piazze, limitando la libera circolazione di tutti gli altri. Con l’ennesimo “sacro” postulato del politicamente corretto, al quale tutti dovrebbero aderire, vogliono far valere valori, volontà e preferenze, incuranti del fatto che le libertà di ognuno, finiscono proprio dove iniziano le libertà altrui. Invece, guai a chi osi esprimere pareri contrari ai loro arbitrari assiomatici criteri: finisce alla gogna mediatica, perché secondo loro dobbiamo essere tutti uguali, pensare e vivere tutti allo stesso modo con identici diritti. È un’ennesima distorsione perché, invece di parità di diritti, dovrebbero invocare e sostenere parità di opportunità.

E qui vale ricordare i fondamenti di uno dei padrini dell’individualismo, John Stuart Mill, illuminato pensatore scozzese ed una delle solide colonne portanti del moderno Liberalismo, che impartisce didattiche “lezioni” nel sublime SAGGIO SULLE LIBERTÀ, secondo le quali: <<Nella nostra epoca, il semplice esempio di anticonformismo, il mero rifiuto di  piegarsi alla consuetudine, è di per se stesso un  servigio all’umanità.>> Ed ancora: <<Proprio perché la tirannia dell’opinione è tale da rendere riprovevole l‘eccentricità, per infrangere l‘oppressione è auspicabile che gli uomini siano eccentrici.>> Dunque, non tutti uguali come questi prepotenti vorrebbero imporre.

Pertanto, stabilito che tutti abbiamo il diritto di essere noi stessi, non è lecito che il chiasso di pochi s’imponga al silenzio dei molti. Infatti, chi non si allinea ai loro criteri rischia di essere sommariamente accusato di politicamente scorretto. Ecco l’ennesima inversione di valori: gli individui devono poter dissentire e frequentare liberamente posizioni opposte e nutrire le proprie particolari opinioni politicamente scorrette, senza dover temere di andare in controcorrente, esercitando il diritto di declinare certe convinzioni ed i loro modernismi inutili, superficiali e altri considerano addirittura deleteri. Invece, chi osa esprimere dissenso rischia di essere discriminato, isolato e definito reazionario, insensibile e refrattario a criteri di certe tendenze che vorrebbero che fossero accettate unanimemente. Eppure, non tutti abbiamo le stesse capacità di interpretare la realtà, e non è nemmeno un bene pensare tutti allo stesso modo. Perciò, quelle singolari orde fanatiche non possono arrogarsi il diritto di imporre agli altri le proprie preferenze, i loro nuovi dogmi. Ognuno di noi in casa propria faccia ciò che meglio crede, ma in pubblico rispettino il senso comune delle maggioranze seppur silenziose.

Una delle controverse misure che i collettivisti difendono e, quando possono, cercano di imporre, è  il metodo dell’insegnamento ideologico e politicamente orientato. Uno degli interventi più  ambigui e polemici è nelle funzioni private della famiglia, che è il fondamentale embrione della società. Infatti, con l’intenzione di condizionare la formazione dei giovani, si arrogano la missione di educare, neutralizzando l’autorità dei genitori nei confronti dei propri figli, considerati una specie di proprietà del potere politico. In questo contesto è utile la lettura del saggio di Carlos Alberto MontanerJOURNEY TO THE HEART OF CUBA (Viaggio al Cuore di Cuba) – qui da me recensito con il titolo Il Dramma di Cuba – dove, fra l’altro, si apprende come Fidel Castro, con la banale illusione di ricreare una nuova età aurea, quasi per emulare quel Robespierre che, nel suo delirio, perseguiva il sogno del nuovo uomo ed iniziare i giovani Cubani alla società “fraterna” del Comunismo, li isolava in colonie agricole, dove, lontani dalle attenzioni dei loro genitori, invece di apprendere i tradizionali valori etici condivisi nelle società aperte, in ambiente del tutto promiscuo, imparavano a conoscere i piaceri del sesso. Oggi, se ne constatano i risultati messi in pratica “professionalmente” per soddisfare gli appetiti dei generosi turisti, sotto vigile protezione di agenti di polizia corrotti… E pensare che Castro aveva promosso la sua Rivoluzione per eliminare le sacche di miseria di Cuba esistenti negli anni ’50, eliminando l’iniziativa privata, ed ha così esteso l’indigenza a tutta la Nazione, se non bastasse, togliendo la prostituzione dai bordelli che ora si riversa per strada.

Sì, è proprio così che funzionano i modelli collettivisti; si avvalgono della coercizione, in detrimento delle legittime libertà individuali e dettano norme, doveri e limitazioni assolutamente arbitrari, nell’inutile tentativo di creare quello che quei tiranni di turno intendono per il nuovo uomo. Ovvero, l’uomo ideale,quello obbediente, disciplinato e sottomesso. D’altro canto, i socialisti hanno da sempre avuto la pretesa di correggere presunte e concrete condizioni di svantaggio che madre natura riserva agli individui in maniera del tutto aleatoria. Allora, da veri messianici giudici, ricorrono a misure compensatorie imposte in modo discriminato, come se le vite altrui appartenessero loro. Ecco che al caso subentra l’intenzione con cui generano altrettante ingiustizie, con ostacoli a chi merita e vantaggi altrettanto arbitrari, dove di solito, al posto del merito, contemplano la militanza. Credo di avere ragioni e titoli per riconoscere solidarietà a quei soggetti che, per caso fortuito, la natura in maniera casuale, o per errore umano, ha riservato limitazioni fisiche o mentali. Certo, in tali circostanze, la collettività ha il giustificato dovere civico di stabilire speciali provvedimenti a loro favorevoli, rendendo loro la vita meno difficile. Sono, invece, diametralmente contrario alla solidarietà istituzionalizzata ed indiscriminata, soprattutto nei confronti di chi certe limitazioni non le ha. Considero che ogni individuo normale abbia in sacrosanto dovere di esercitare le proprie intrinseche potenziali capacità e non deve e non può usufruire di particolare solidarietà che deve essere riservata eccezionalmente a coloro che, purtroppo, soffrono determinate limitazioni.

È, pure, biasimevole constatare quanti nostri giovani preferiscono la condizione di disoccupati, sovente, non tanto perché non trovano un lavoro, ma altrettanto spesso perché non accettano di sporcarsi le mani, o temono le fatiche per non formarsi quei calli che magari caratterizzavano i loro stessi genitori. È pur vero che in futuro, le tecnologie permetteranno alla grande maggioranza di lavorare meno, con minori sforzi o rischi, ma certamente, non per tutti ci sarà lavoro da svolgere su di comode poltrone o dietro scrivanie, senza sforzarsi o liberi di qualsiasi responsabilità. La tirannia di determinate attuali convenzioni e la superficialità di certi criteri permissivi ed assistenziali, hanno generato una miriadi di individui che invocano ogni sorta di diritti a scapito di altrettanti più validi doveri. Evidentemente, anche qui siamo dinanzi ad inversioni di valori che spesso iniziano nell’ambito di famiglie impreparate, continuano nelle scuole che non stimolano il profitto e si perpetuano nella società, dove il merito poi passa in secondo piano, sostituito dalla militanza politica.

Ed allora diviene comodo invocare concetti come  “l’ozio creativo”; altri ancora affermano che il lavoro sarebbe un diritto (e non un dovere); che tutti dovrebbero avere diritti uguali, salvo chi tiene le redini del potere in mano perché – per parafrasare ancora Orwell -, sarebbero più uguali degli altri… Quindi, si nutre l’invidia da parte di chi non ha o non riesce nei confronti di chi ha successo. Perciò, si fa intervenire il fisco che toglie ai meritevoli per dare a chi si lamenta, senza mettersi alla prova. Ma allora dove finiscono le responsabilità individuali? È l’ennesima inversione di valori. Invece, anche i diritti hanno un costo e si ottengono con il proprio impegno. Ma non con l’inerzia o l’ozio che qualcuno considera creativo; creativo è il bisogno: le nuove soluzioni nascono dalle necessità, dal timore, dall’incertezza. Il potere politico, quando pretende distribuire certezze e sazietà, illude le masse; invece, al contrario, fin dall’antichità siamo stati guidati dai dubbi e dalla fame; indotti da queste condizionanti sviluppiamo le idee, le invenzioni, spesso anche per soddisfare le proprie curiosità; non è accomodati su di una bella sedia a sdraio, in spiaggia a contemplare il ritmico moto delle onde che genera prudenza dalla quale, a sua volta, scaturisce l’individuale senso di responsabilità. Non impariamo dall’inattività, bensì dagli errori che poi ci inducono a correggerli. La lenta rivoluzione del progresso è anche, se non sopratutto, fatta di tentativi e adeguamenti. Sono i nostri quotidiani dilemmi che ci stimolano all’azione. Non possiamo invertire i criteri; non sono i diritti che rendono degni gli umani, ma sono i loro meriti, il loro operato ed i risultati ottenuti. Chi dispone di integre facoltà, il lavoro è un vero dovere civico. Tutti noi, dal momento che siamo in grado di produrre, abbiamo l’obbligo di sfruttare in modo costruttivo le nostre potenzialità. Purtroppo, perfino nelle scuole, i politicanti hanno sostituito il merito con la militanza alimentata dall’invidia che crea il resto dei danni.

Non è nella militanza e nel dolce far niente che sviluppiamo la nostra creatività; è nella solitudine che l’individuo, andando in controcorrente, alla ricerca di nuovi parametri  che scopre nuove soluzioni. L’individualista è un solitario che pensa a modo suo ed inaugura nuove scappatoie per aggirare gli ostacoli che si incontrano strada facendo, suggerendo nuove direzioni, perseguendo nuovi sconosciuti commini su vie non ancora percorsi da altri. Lo hanno osservato Carl Jung e lo sostiene Susan Cain con il suo saggio QUIET REVOLUTION.

Un altro chiodo sul quale insistono ostinatamente gli adepti del fallito collettivismo è la condanna dell’egoismo a favore dell’altruismo. In fondo, non percepiscono che anche l’altruismo è un’indiretta forma di egoismo; infatti, l’altruista, nella sua intimità, agisce per soddisfare il proprio ego, seguendo una sua specifica ambizione. Sempre in queste pagine con L’Egoismo Fonte di Progresso ho recensito il saggio dall’emblematico titolo LA VIRTÙ DELL’EGOISMO di Ayn Rand. Sostengo che l’egoismo è una difesa biologica presente nell’organismo di ogni forma vivente. Tuttavia, i soliti indottrinati contaminati dall’ideologia, hanno la pretesa di eliminare l’egoismo, senza rendersi conto che è proprio da questa forma di difesa che nasce la prudenza e conseguentemente, anche la responsabilità individuale. Eppure, i devoti  marxisti che avversano l’iniziativa privata, accusando gli imprenditori di egoismo, dimenticando che grazie a tale qualità, gli individui esplorando il proprio capitale umano, trasformano risorse naturali in beni di valore aggiunto. Sono mossi, non dalla soddisfazione della propria condizione, ma dalla curiosità, dall’ambizione di fare e dal desiderio di migliorare ciò che sembra già abbastanza buono e sufficientemente utile, ma perfettibile. Ed è grazie a questi atteggiamenti di insoddisfazione di pochi che si produce ricchezza che, direttamente o in maniera indiretta, poi si distribuisce fra i molti. È il fenomeno dei vizi privati e benefici pubblici a cui Bernard de Mandeville si riferisce nella sua FAVOLA DELLE API. Da notare che questo autore già nel 1725 sosteneva che mai prima del suo tempo l’umanità era vissuta così bene:

“Se seguiamo le nazioni più fiorenti fino alla loro origine, troveremo che nei lontani inizi di ogni società, gli uomini più ricchi ed importanti mancarono per lungo tempo di moltissime di quelle comodità della vita di cui ora godono gli ultimi e più umili poveracci; così che molte cose, che un tempo considerate dei ritrovati di lusso, oggi sono consentite perfino a coloro che sono tanto poveri da essere oggetto di carità pubblica; e, anzi, sono considerate tanto necessarie, che pensiamo che nessuna creatura umana dovrebbe esserne priva.”

Chissà cosa scriverebbe Mandeville oggi che tutti hanno l’acqua corrente calda, il gas e la luce elettrica in casa, senza contare tutte le restanti comodità?

Ora, non basta più la condanna di certe forme di egoismo;  è di moda dichiararsi a favore di altrettante preferenze sessuali e guai non accettare tali scelte. Io non ho niente in contrario che un maschio senta attrazione per un uomo od una femmina per una donna; sono preferenze che vanno rispettate; ma va rispettata anche la predisposizione di chi dichiara apertamente la propria preferenza per il sesso opposto, senza dover subire la discriminazione di essere tacciato del grave delitto politicamente scorretto. Ciononostante, deve esserci riconosciuto il diritto di poterci dichiarare normali e difendere preferenze eterosessuali, perché la normalità della natura è questa e, personalmente, non sono dell’opinione che sia affatto un bene che due uomini o due donne possano allevare figli come se fossero dei normali genitori proprio perché non lo sono; e credo di poter sostenere questa convinzione in virtù della mia diretta amara esperienza di vita. Convivo con mia moglie ed i nostri figli da quasi 40 anni, senza esserci legalmente sposati; non vedo alcuna utilità nella legalizzazione della nostra unione; ed allo stesso modo, non la vedo per gli omosessuali…

Ho le mie ragioni: all’età di meno di quattro anni, ultimo di cinque figli, ho perso la madre ed in qualità di orfano materno, pur avendo un padre esemplare ed avendo potuto contare sull’amoroso ausilio – a turno – di due sorelle maggiori, posso molto bene descrivere il dolore e le frustrazioni che ho sofferto per almeno oltre otto o nove lunghi difficili anni, ossia fino alla complicata età di dodici e tredici anni, durante i quali  ho sempre considerato di aver dovuto pagare un debito che io non avrei potuto contrarre. Di fatto, non potrò mai scordare le lunghe notti in cui non prendevo sonno, pensando alla mamma, bagnando il mio cuscino di lacrime, mentre mi  chiedevo per quale motivo, contrariamente ai miei compagni, non avevo una vera mamma?… Nella loro compagnia di allora, in più opportunità, magari a casa loro, dinanzi ai loro genitori, avevano dovuto consolarmi, quando al ricordo dell’assenza di mia madre non riuscivo trattenere il mio pianto per quella mia condizione; evidentemente, in quell’ambiente, non potevo evitare di osservare come loro avevano una normale madre che li curava e che li seguiva con materna attenzione.

Ora, da adulto carico di esperienze vissute, riesco ad immaginare, come certi bambini possano sentirsi, realizzando di non avere una tenera figura femminile come madre; e ciò non solo a casa durante insonni notti in cui, nella loro solitaria intimità, pensando ad altri esempi, si possano formulare imbarazzanti questionanti; ma anche – se non soprattutto – a scuola ed in pubblico con i loro compagni che parlano con la massima disinvoltura delle proprie mamme, non potendo nemmeno immaginare ciò che possa costituire avere tale privilegio. Di fatto, non credo che è un padre, per quanto affettuoso, o due sorelle altrettanto amorose, siano in grado di sostituire una madre e compensare quell’assenza… Infatti, sono convinto che nella nostra vita, per un equilibrato sviluppo e per la normale formazione del carattere e della personalità di un giovane, i due genitori abbiano primordiali e precise funzioni distinte. Nella mia interpretazione, la madre è colei che trasmette il sentimento; è lei che per prima ci modella e ci inizia alla vita, aiutandoci a crescere ed evoluire nella nostra prima gioventù nell’ambito della vita privata; già la funzione del padre, invece, è molto differente: egli è il tratto di unione che ci collega ed avvia verso la vita pubblica. Credo pure che sia lui a contribuire a modellare il carattere del ragazzo che sovente in lui si specchia ed a lui si ispira. Quindi, non riesco ad immaginare come due uomini possano sostituire una madre; tuttavia, ho un po’ meno di restrizioni a due madri proprio perché, sono convinto che la donna, per la sua stessa natura, abbia una maggiore versatilità. La donna è molto diversa. Non per niente, fin dall’antichità più remota, la donna-madre anche nella convivenza della comunità, copriva le più distinte attività nell’ambito della famiglia, in prolungata assenza del maschio che molto più spesso era una presenza assente, mentre andava a caccia od a raccogliere il fabbisogno delle giornate e quelle da accumulare per le stagioni invernali. Alla donna toccavano tutte le altre faccende, dall’allattamento e cura della prole, alla confezione dell’abbigliamento;  la preparazione degli alimenti, fino ad inventare addirittura lo stesso linguaggio.

La nostra società è cambiata molto da allora ed attualmente soffre ulteriori grandi ed anche dubbie trasformazioni. Da inguaribile ottimista, credo che con il tempo, si correggeranno anche certe forme di distorsione; è della natura umana sbagliare e poi rimediare ai propri errori. È comunque incontestabile che stiamo attraversando un periodo di una certa crisi di autorità che inizia nelle famiglie, dove molti genitori, presi dal lavoro, sovente affidano l’educazione dei figli, piuttosto ad un elettrodomestico quale la televisione che un illustre intellettuale – Pierluigi Piazzi – ha definito la Talidomide dell’attualità, proprio perché, così come quel fatale medicinale riduceva la crescita degli organi, la TV tende a menomare le capacità intellettive, principalmente dei giovani che, dinanzi alle immagini che scorrono,  si disabituano e pensare. E, mi pare, che sia il simpatico autore napoletano Luciano De Crescenzo che in uno dei suoi ironici libri abbia scritto che <<accendendo la TV, cessa di vivere>>, mentre il grande Popper dedicava ad un suo libro dal titolo di TELEVISIONE PESSIMA MADRE che la dice tutta.  Ebbene, se l’educazione che dovrebbe svilupparsi in casa ed invece mostra di essere in evidente crisi, essa sembra ulteriormente  compromessa nelle scuole deputate alla formazione di cittadini. Infatti, una volta le scuole insegnavano a rispettare gli adulti in genere e l’autorità degli educatori in particolare e solo in casi rari erano contestati perfino dai genitori. Oggi, i migliori insegnanti oltre ad essere sempre più rari dovrebbero essere considerati dei veri eroi. Gli stessi alunni, spesso, si permettono di contestarne la loro autorità, senza che sia ammessa una meritata punizione. E sono gli stessi genitori che sovente si oppongono che le scuole adottino severe misure contro certi elementi oltremodo maleducati.

Com’è possibile, dunque pretendere che in queste circostanze si possano formare cittadini rispettosi e responsabili, se nell’ambito delle stesse famiglie e nelle scuole non si adottano criteri di norme e limiti minimi alle licenziosità della gioventù, quando l’autorità pubblica costituita si attribuisce addirittura la prerogativa d’intervenire contro l’eventuale giustificata severità degli stessi educatori? Non è un caso se la crisi di autorità inizia proprio nei nostri focolari ed ormai si espande a macchia d’olio nella vita pubblica, fino ad assumere dimensioni grottesche in cui, agli agenti dell’ordine se nega il diritto di reazione alle provocazioni e sono apertamente privati della loro necessaria autorità, assoggettati ai rigori della legge, mentre i delinquenti sono vergognosamente protetti oltre maniera da garanzie e favori di altrettante concessioni della stessa legge. Ecco un altro esempio di inversione di valori in cui, coloro che sono chiamati a tutelare l’ordine diventano dei perseguitati e i trasgressori sono trattati come vittime.

E se non bastasse, l’individuo che reagisce per difendersi, in casa propria, contro la minaccia del delinquente invasore, corre il rischio di finire in carcere al posto del delinquente. E, specialmente nel nostro Paese, si arriva alla grottesca assurdità che un individuo, in casa propria, non viene riconosciuto il diritto di ricorrere alla propria difesa armata per proteggere i propri cari, nel migliore e più efficace dei modi, contro il delinquente che minaccia la loro integrità fisica o semplicemente i propri beni. Dovrebbe accettare il rischio di farsi ammazzare pur di non reagire ai pericoli che sta per correre. In altre parole, chi premeditatamente decide di agire da delinquente può contare sulla protezione legale della legge positiva, mentre all’individuo che corre il pericolo in casa propria o nel proprio ambiente di lavoro non viene riconosciuta la facoltà di ricorrere alla sua legittima difesa armata che, al contrario la più giusta legge della natura gli consentirebbe.

E se vogliamo proprio discutere l’introduzione di nuovi paradigmi polemici, ma che riguardano essenzialmente la persona responsabile, nella sua vita privata e la sua particolare specifica esistenza, ci si può riferire ad assunti di sfera intima sui quali molti di noi divergono in maniera radicale. Infatti, personalmente, considero che spetti agli individui nei loro diritti naturali di ricorrere o praticare la prostituzione; di consumare droghe (leggere); di decidere il proprio suicidio o di includere o menonel proprio testamento clausole del destino dei propri organi in caso di morte cerebrale eccetera, od a favore della propria eutanasia. Credo che la vita di ognuno di noi non appartenga affatto alla collettività, ma a chi effettive la vive e ne subisce le conseguenze.  Pertanto, ad ogni individuo dovrebbe essere riconosciuta la prerogativa di decidere di dar sfogo alle proprie inclinazioni e preferenze sessuali sia per semplice piacere come per trarne beneficio, o di fumare e di far uso di altre droghe con affetti non molto diversi dall’alcolismo, sempre, senza compromettere diritti di terzi; di decidere in piena lucidità di rinunciare alla propria vita; di lasciar registrato che, in caso di perdita di facoltà cognitive, o di incurabile sofferenza, poter esigere l’interruzione di tale prolungata inutile agonia, senza speranza concreta di un miglioramento. Quindi, in ambienti privati, come a casa sua, l’individuo possa fare le sue scelte, dovendole tollerare purché non danneggino la salute ed i diritti alle libertà altrui, senza compromettere i diritti di altri, assumendo le proprie responsabilità delle rispettive conseguenze.

Infine, per concludere, torno ancora una volta, all’attuale problema che ormai sembra contagiare la sensibilità di gran parte degli Europei in generale, ma specialmente noi Italiani. Mi riferisco allo spinoso problema dell’immigrazione, da me già trattato in più occasioni, come con la recensione dal titolo “Osservazioni di Economia e Politica Sociale” del saggio IMMIGRANTS – YOUR COUNTRY NEEDS THEM (Immigranti – Perché abbiamo bisogno di loro) del cosmopolita Philippe Legrain. E così, per un’ennesima volta, non mi schivo di andare contro la corrente dominante, consapevole di contrariare addirittura molti di coloro che fino a questo paragrafo, possono avermi seguito con certo generoso tollerante consenso.

Allora, riassumendo quanto già espresso in quella recensione o nel mio altrettanto polemico articolo dal titolo Lo Spettro del Razzismo Italiano, in queste mie pagine, ora ripeto che se gli Italiani davvero desiderano rischiare che il nostro caro Paese avanzi verso un avvenire molto più oscuro e nebuloso di quello che molti di loro stessi prospettano per via della cosiddetta invasione degli indesiderati esotici elementi, basta che si chiudano su se stessi in maniera quasi ermetica, impedendo drasticamente l’afflusso della tanto temuta immigrazione, è bene che si preparino pure a fare tutti quei lavori scomodi o faticosi che attualmente sono eseguiti dagli stranieri e che i nostri impreparati giovani – disoccupati volontari per propria scelta – si negano a svolgere.

Considerino, inoltre, che una Nazione per poter prosperare non può assolutamente abdicare alla sua continuità di esistenza; infatti, per mantenere un certo livello di benessere, deve provvedere ad un necessario mantenimento di una minima rinnovata natalità, sotto la soglia della quale, è del tutto inevitabile l’inizio di un fatale declino. È inutile farsi illusioni, sul nostro pianeta, nessuno a medio e lungo andare, può prosperare nell’isolamento. Lo ha tentato a più riprese la Nazione più sviluppata dell’antichità, la Cina e di nuovo, in tempi più recenti, con risultati disastrosi, anche grazie alla politica del figlio unico imposta del regime di Mao Dzedong; infatti, la Cina fra qualche decennio, se non correrà velocemente ad urgenti ripari, affronterà un problema serissimo per il solo mantenimento dei suoi anziani.

E per ciò che ci riguarda da vicino, c’è da aggiungere ancora che non si può progredire in nazioni come la nostra, dove marito e moglie ai neonati preferiscono allevare quadrupedi domestici. Infatti, non saranno gli intimi compagni degli umani, costituiti dai bravi e fedeli cagnolini e dagli affettuosi gatti ruffiani, con le loro deliziose fusa che potranno assicurare una serena vecchiaia ai pensionati di domani. Al contrario, toccherà proprio ai figli degli attuali immigrati che non possono essere considerati un problema perché, di fatto, molto concretamente – che piaccia o meno -, costituiscono un’autentica soluzione, proprio perché sono quelli che potranno assicurare non solo beni e servizi essenziali alla prossima generazione, ma saranno sempre loro in grado di produrre la ricchezza necessaria per il mantenimento della salute e della sopravvivenza ad un livello minimamente dignitoso dei pensionati di domani.

I difensori dell’isolamento dovrebbero meditare un po’ più seriamente alle loro prese di posizione, perché ne va dimezzo non tanto la nostra Cultura, o la nostra Civiltà – come sostengono certuni -, ma è dalla loro presenza che dipende l’equilibrio della fragile esistenza della prossima generazione. Se proprio vogliamo limitare l’invasione degli indesiderati allogeni, basta che i burocrati di Bruxelles e di Strasburgo, cessino di limitare l’azione ai singoli membri dell’Unione, smettendo di dettare norme destinate all’appiattimento delle distinte diversità che caratterizzano l’Europa, quando decidono di pianificare e regolare un po’ ogni settore produttivo. E dovranno finalmente accordarsi soprattutto per la sospensione in modo definitivo di ogni sovvenzione all’agricoltura, da tempo ingessata ed impedita di far uso delle più moderne tecniche. Infatti, per proteggere il modesto 2% degli Europei, degli ultimi operatori agricoli ancora attivi, essi dovranno rendersi più produttivi ed indipendenti dagli ambigui sussidi loro riservati. È più che urgente eliminare  la concorrenza sleale che pratichiamo contro gli Africani e lasciare loro la possibilità di liberamente concorrere con quei prodotti per i quali loro hanno, senza alcun dubbio, una maggiore vocazione dei nostri. Allora, una buona parte di questi disperati avventurieri, avendo prospettive accettabili a casa loro, spontaneamente, ridurranno il flusso della corrente migratoria, evitando anche di rischiare le proprie vite nel tentativo di attraversare il mare per raggiungere le nostre coste della loro speranza per una vita migliore.