LA RANA CINESE

di Riccardo Illy (Recensione)

Il  Liberale discreto

Devo innanzi tutto confessare che prima di familiarizzarmi con questa eccellente lettura, personalmente, dell’autore sapevo ben poco; anzi, tendevo ad alimentare perfino una certa prevenzione; infatti, ricordavo, fra l’altro, che Riccardo Illy era stato al centro di poco chiare polemiche diatribe mediatiche e soprattutto come, a suo tempo, era stato promosso alla guida dell’amministrazione di Trieste e poi eletto alla presidenza della Regione Friuli Venezia Giulia – Terra di mio padre -, dalle coalizioni di quei partiti di sinistra che ci hanno governato (male) per tanti anni, appoggiando perfino Prodi, per la cui figura politica non nutro alcuna simpatia, né la  minima  impressione positiva, avendo oltretutto una enorme difficoltà a seguire quei confusi pronunciamenti pubblici e quel suo assolutamente irritante incerto parlare. Tuttavia, il titolo LA RANA CINESE mi  incuriosiva davvero, mentre il sottotitolo – Come l’Italia può tornare a crescere – mi suggeriva che qualche utile ed interessante osservazione, su cui meditare, ci sarebbe stata; ed infatti non mi ero sbagliato. Però, non nego nemmeno come già alla prima pagina, con enorme sorpresa, mi vedevo confrontato con la premessa di Luca di Montezemolo, procurandomi una certa esitazione; una lieve sensazione di sconforto mi aveva assalito e, per poco, non rinunciavo a proseguire; ma, ormai, avevo il libretto in mano e inghiottendo un po’ di quel gusto amaro che mi si era formato in bocca, storcendo anche un po’ il naso, avevo deciso di perseverare. Saggia decisione…

Ebbene, immediatamente, fin dall’inizio della premessa dell’autore stesso, notavo come ciò che leggevo era perfettamente in linea con le mie convinzioni, perciò, la sorpresa risultava piuttosto favorevole; infatti, nella misura in cui proseguivo, pagina dopo pagina, quanto descriveva mi entusiasmava con crescente soddisfazione. Così, ben presto, potevo concludere che abbandonarlo già prima d’iniziarne la lettura mi avrebbe fatto perdere un’ottima opportunità di condividere tutta una serie di osservazioni che io stesso, vittima di forti sentimenti di frustrazione per le deleterie nebulose rotte seguite dai soliti inesperti timonieri, in cui il nostro caro Paese, purtroppo, è indotto a navigare, io, con instancabile ostinazione, sostengo ormai da parecchi anni. Ecco, invece, mi stavo già identificando perfettamente con quanto, in questi capitoli, scritti nell’ormai lontano 2006, Illy metteva opportunamente a fuoco – contenuto che a distanza di ben otto anni, ancora oggi, risulta certamente valido ed attuale. La fortuna m’ era stata amica, così, a dispetto della mia iniziale diffidenza, scoprivo finalmente un personaggio molto diverso da quello che nei miei tendenziosi pregiudizi avevo immaginato: macché socialismo, idee assolutamente condivisibili e di paternità di un potenziale autentico, forse renitente, ma sincero liberale!

Saggio dal testo scritto bene da leggere in poche ore e che riesce a sintetizzare in limitato spazio il grande mosaico delle controverse circostanze che hanno portato ad un così forte rallentamento del nostro progresso; quello che dalla miseria del Dopoguerra aveva saputo catapultare la Nazione in un ammirevole benessere, grazie agli aiuti del Piano Marshall, ma anche con il determinante concorso dell’abilità e talento dei nostri dinamici ed impegnati imprenditori.

Il libro ci presenta con grande chiarezza e cristallina trasparenza un’attenta analisi della situazione, delle ataviche eredità che ci portiamo addosso e che ci trasmettiamo di generazione in generazione; l’iper protezionismo che i genitori riservano ai figli da cui deriva in famoso mammismo, sublimando le numerose cause e conseguenze dei tanti peccati capitali della dirigenza del potere pubblico responsabile di tante inadeguatezze che l’ormai logorato endemico modello politico, economico, sociale ed organizzativo della nostra cara ed umiliata giovane, ma invecchiata, Nazione soffre. Diversamente dai equivoci atteggiamenti dei loquaci corporativistici politicanti nostrani, che tanto amano esibirsi nei consueti programmi televisivi strillati, Illy, in questa lettura esibisce una lucida visione dell’Italiano insolitamente moderno e preparato, muniti di una mentalità cosmopolita aperta, capace di identificare molto bene non solo gravi le complicazioni e le difficoltà alle origini dei nostri mali ed dei rispettivi effetti, ma anche tutta una serie di misure che potrebbero liberarci da tanta mediocrità, risolvendo buona parte delle nostre tristi vicissitudini, di parziale secolare genesi.

Infatti, da buon cittadino formatosi in prossimità dei nostri confini ed avendo studiato e vissuto in più Paesi stranieri, Illy identifica e presenta uno scenario dell’Italia non solo partendo da un punto di vista prettamente interno, chiuso su se stesso, ma descrive un quadro dell’insieme del panorama da come lo si può osservare anche dall’esterno. Egli cita esempi della nostra realtà, considerando  le nostre contingenze nel generale contesto globale. Vi si paragonano i vari intrecci dai quali derivano seri svantaggi in rapporto alle situazioni in cui agiscono i nostri concorrenti dei Paesi limitrofi, ma anche in virtù dell’evoluzione globalizzante, economica ed industriale che sta trasformando la realtà di concorrenti molto oltre i nostri confini. Passa in rassegna, di sfuggita, ma in maniera efficace, vizi e virtù della nostro ricco Paese – specialmente per ciò che concerne capitale umano –, ma indica soprattutto come per responsabilità della sua classe dirigente, poco aggiornata, stenta ancora a reagire, inconsapevole della propria condizione in cui il ricatto dei conservatori mantiene sotto assedio buona parte dello straordinario apparato produttivo potenziale che, a sua volta, ignaro delle proprie possibilità che il grande mercato mondiale proporziona, è impedito a raccogliere per via di norme banali e regolamenti restrittivi arcaici, dettati da burocrati insensibili che stanno alla base delle nostre intrinseche difficoltà, sempre più attenti agli interessi del tentacolare corporativismo parassita.

Mentre altri osservatori, che in maniera piuttosto ambigua, demagogica e superficiale, con troppa retorica, pretende sostenere un nuovo ordinamento di concezione federalista, questi si illudono allo stesso tempo di poter mantenere il Paese in compartimenti stagni, ermeticamente protetto, chiuso nella sua torre d’avorio, contro le infiltrazioni di beni e di servizi, contrari alla salutare libera circolazione degli individui in un equo modello di libero scambio. Osano addirittura scagliarsi, anche senza mezzi termini, contro l’invasione non solo di esuli e profughi, ma anche di quelle utili forze di lavoro che giustamente possono coprire funzioni che la nostra brava gioventù, senza arrossire, turandosi indegnamente il naso, declina. I più intolleranti, ottusi miopi, manifestandosi ossessivamente contrari all’immigrazione, credono di essere carichi di ragioni, radicalmente ostili all’immigrazione, palesemente dimentichi che fino ad una manciata di decenni fa, noi stessi eravamo gli invasori di turno.

A questi bisognerebbe rinfrescare un po’ la memoria – ma basterebbe leggere L’ORDA. QUANDO GLI ALBANESI ERAVAMO NOI di Gian Antonio Stella per rimettere ordine nelle loro confuse menti e rimettere in equilibrio vicende storiche che non abbiamo il diritto di far finta di ignorare. Infatti, così come ieri i nostri – e come si sa non sempre  erano i più esemplari – sono stati accolti, oggi, abbiamo il dovere morale di fare altrettanto con chi, aspirando ad una vita migliore, viene a contribuire al nostro benessere. Non ci si può isolare, pretendendo di vivere un’esistenza in un modo a parte, come se un moderno Paese potesse continuare a proteggere se stesso senza recepire i cambiamenti che l’inevitabile globalizzazione comporta.

Quindi, in totale contrasto con concezioni tipicamente nostrane che da troppo caratterizzano la nostra inclinazione al nostro endogeno provincialismo e la decorrente eterna incapacità di portare a termine l’urgente adeguamento ai tempi con le ormai inderogabili numerose riforme che chiamano all’appello, l’autore elenca molto opportunamente i punti deboli del nostro precario sistema. Infatti, mette in luce come stentiamo a liberarci della preferenza per la conservazione, piuttosto di avanzare con i cambiamenti in grado di favorire concretamente il nostro inserimento nella pressante inevitabile modernità che ci stringe definitivamente l’assedio, mentre non dobbiamo temere il confronto, potendolo affrontare senza tanti complessi.

Ed egli non esita a mettere il dito direttamente nelle multiple storiche piaghe aperte che da  praticamente sempre affettano il nostro modello, a cominciare fin dall’educazione; e pur riconoscendo le note virtù degli Italiani, chiama in causa la nostra classe politica insieme alle rispettive compiacenti – per non dire conniventi – appendici della burocrazia, ormai arroccata sulle proprie posizioni in difesa dei privilegi ambiguamente ottenuti – o strappati con l’estorsione – ed incapace di riparare le nostre scoordinate strutture che ancora incorporano vestigi delle obsolete amministrazioni borboniche e mantiene buona parte del Paese ricattato da un cronico ritardo rispetto ai nostri vicini. Indica, inoltre, i limiti organizzativi e la scarsa disponibilità di mezzi, soprattutto di risorse nell’ambiente dei nostri piccoli imprenditori che, pur provvisti di tutto un bagaglio d’ingegno che il mondo intero ci riconosce e sovente ci invidia, non compensa l’ambiente ostile in cui opera; e l’innato talento e la straordinaria capacità di sfruttare la creatività tipica dei nostri conterranei, non bastano per mettersi, con successo, al passo delle nuove tecnologie che derivano dalla ricerca applicata, senza l’impegno di forti investimenti, per riuscire a mantenere il passo con le continue mutazioni.

Non perde nemmeno l’occasione di citare le difficoltà originate dai multipli tentacoli dei corporativismi, primo fra i quali, l’intransigente classe sindacale che ormai da troppo tempo mantiene sotto scacco buona parte dell’apparato produttivo e che con la sua eterna temeraria inflessibilità, a nome di una limitata parte dei dipendenti si aggiudica le prerogative di rappresentare l’insieme ma che, così facendo, dissuade lo sviluppo di nuovi investimenti, ingessa lo sviluppo e contribuisce, allo stesso tempo, alla drammatica disoccupazione dei giovani, inibendo oltretutto la spontanea  versatilità che i nostri bravi imprenditori potrebbero mettere a profitto ed applicare nella più che urgente innovazione, in modo da poter affrontare più serenamente ed in maggiore libertà il moderno mercato esigente che non risponde alle dinamiche di dottrine e molto meno di adegua alla cinetica delle militanze.

Si riferisce ugualmente ai fattori negativi del  nostro più che obsoleto ordinamento giuridico e la sua conseguente tradizionale complessa e letargica lentezza, che richiede un più che urgente aggiornamento senza il quale il Paese non si libererà dalle catene di uno storico conformismo congenito da cui si è generata un’inerzia che paralizza le iniziative dei più intraprendenti; le leggi, le norme, i controlli e tutti gli ostacoli che aumentano, invece di tutelare l’imprenditoria, l’ha semplicemente ingessata ed in ultima analisi, impediscono la spontanea evoluzione della società stessa che ormai è immersa in un profondo pessimismo. Egli auspica la modernizzazione della legislazione affinché il sistema Italia possa tornare ad avanzare e finalmente essere pronto a sempre meglio dare sfogo alle iniziative, alla creatività dei singoli con il dinamismo che ci caratterizza, nel confronto con la crescente competitività dei manufatti provenienti dai Paesi emergenti, senza dover temere nuove sfide sulla semplice base dei puri costi dell’elementare scarsamente qualificata manodopera. Dobbiamo riuscire a distinguerci per ciò che meglio sappiamo fare, proprio perché anche i Paesi in via di sviluppo imparano velocemente ed il paragone sulla base del prezzo sarà inevitabilmente sfavorevole a noi. Pertanto, diventa oltremodo imperativo continuare ad aggregare nuovo valore aggiunto ai nostri prodotti e servizi, mettendo dando risalto alla nostra particolare qualifica nell’ambito della conoscenza, del gusto, dell’estetica che in ultima analisi ci rende così diversi.

Mette a fuoco i grandi problemi che affliggono la mobilità, il settore dei trasporti e della comunicazione, parzialmente paralizzati non solo dall’inerzia delle competenze del potere pubblico, ma anche per intromissione dalla cieca militanza ambientalista che più che altro si nutre più di criteri ideologici e dottrinari piuttosto che di effettivi giudizi  strettamente pragmatici. Dedica alcuni commentari anche alla gigantesca potenzialità del turismo. Infatti, dinanzi al cambiamento che raggiunge ormai tutto il mondo, la modernità con l’intervento dell’automazione, genererà una graduale riduzione delle ore di lavoro, dove gli individui disponendo sempre più di tempo libero, il turismo, dovrà costituire uno dei settori di più forte espansione. Eppure, campo questo che l’Italia poco coltiva, da molto non valorizza e male affronta. Da noi, i turisti vengono perché vogliono loro, ma non ricevono alcun incentivo, nessuno li stimoliamo affatto. Ormai, pur vantando un incomparabile patrimonio culturale, artistico, geografico e gastronomico nei confronti del mondo intero, continuiamo a perdere posizioni: siamo stati ampiamente superati dalla Francia, dalla Spagna, dagli Stati Uniti ed ora anche dalla Cina; questo ci dovrebbe servire da allarme e principalmente convincerci che a brevissima scadenza qualcosa dovrà pur cambiare.

Insomma, un libretto oltremodo eloquente che può essere raccomandato a tutti, specialmente agli ostinati naufraghi, orfani del socialismo, agli impenitenti seguaci dell’egualitarismo, agli incalliti teorici della solidarietà istituzionalizzata che esonera gli individui dall’impegno personale e dalle proprie responsabilità; non per niente, Illy mette a nudo tutta una serie di circostanziali contingenze che richiedono una seria meditazione e finalmente un radicale cambiamento degli approcciaci. Infatti, nonostante egli non faccia apertamente riferimento in maniera esplicita al pensiero liberale, magari citando  noti autore delle tesi liberali, salvo la brevissima e timida menzione  di uno dei tanti paradigmatici classici saggi del Liberalismo – LIBERI DI SCEGLIERE – di Milton Friedman,  Premio Nobel per l’Economia insieme ad uno dei più importanti pensatori del secolo scorso, Friedrich August von Hayak – tanto caro alla Dama di Ferro alias Margareth Thatcher – credo che, nel complesso, nel suo predominante contenuto, questa lettura abbia abbastanza da poterla classificare come una valida invocazione alla riscoperta di un’economia molto più di conio liberale ed infinitamente meno  socializzante.

Mi verrebbe spontaneamente da chiedere al bravo autore – proprio lui che è cresciuto sul confine della Jugoslavia di Tito -, cittadino di una Trieste che ha vissuto la singolare esperienza salvata dalla presenza degli Alleati, cosa ci faceva in compagnia degli eredi del collettivismo che, fino alla vigilia del crollo del Muro della Vergogna di Berlino, erano ancora disposti a salire sulle barricate per difendere ideali che la stessa tragica storia ha drammaticamente squalificato, proprio come quell’altro gigante liberale della Scuola Austriaca – Ludwig von Mises – nel lontano 1922 aveva preconizzato, con il famoso saggio dal titolo SOCIALISMO, ahimè, praticamente ignorato in Italia. In esso, quasi profeticamente, premoniva con oltre settant’anni di anticipo, come e perché, dinanzi all’incapacità ed all’effettiva impossibilità di poter calcolare i costi dei beni e dei servizi, in assenza di un mercato libero, il collettivismo sarebbe fatalmente fallito.

Infatti, proprio partendo dal fatale equivoco ambiguamente sostenuto da Marx, si attribuiva un irrealistico costo fisso al valore aggiunto del lavoro; i difensori di quella profondamente erronea tesi, invece, non potevano capire che il libero mercato è un “ordine spontaneo” in cui è l’universo degli individui che esprimendo liberamente le proprie preferenze, agendo come i veri protagonisti capaci di determinare l’effettivo valore dei servizi e dei prodotti liberamente scelti. Pertanto, in un sistema pianificato, dove i gestori del potere si attribuiscono la prerogativa di generare la produzione sulla base di imposizioni politiche, non possono calcolare razionalmente i costi. Infatti, non è il pianificatore né l’industria, né la pubblicità che possono decidere quali saranno le aspirazioni dei singoli consumatori; non c’è autorità in grado di obbligare gli individui a preferire un servizio od un bene, piuttosto che qualche cosa d’altro. Perciò, è assolutamente falso che ai servizi ed ai beni si possano attribuire valori predeterminati, in funzione del costo delle materie prime, dell’energia consumata e del costo del lavoro applicato; al contrario, beni e servizi hanno solo il valore che il mercato, ossia, i consumatori, sono liberamente e spontaneamente disposti a spendere,  esprimendo le proprie preferenze sulla base della convenienza, della disponibilità, ovvero, dell’abbondanza e della scarsità, fattori che condizionano la legge dell’offerta e della richiesta in determinati luoghi e momenti. Sono i fornitori che, volendo ottenere successo, devono rincorrere i capricci e le aspirazioni dei singoli consumatori che non possono essere conosciuti a priori, proprio perché possono alterarsi a qualsiasi momento, dipendendo, dal clima in una determinata zona, come pure dall’umore che potrà prevalere in un dato ed inatteso momento storico.

Ormai non c’è più tempo da sprecare e se non ci affrettiamo a dare un nuovo indirizzo alle nostre politiche, se non mandiamo un chiaro messaggio alla nuova generazione affinché si assuma anche questa le proprie responsabilità, arrotolandosi le maniche, senza temere di sporcarsi le dita o di formarsi qualche callo, ma seguendo l’esempio della generazione che l’ha preceduta, in alternativa ci potremo attendere nient’altro che miseria, smarrimento per finire nel pozzo del nichilismo.