LA CARITA’ CHE UCCIDE (DEAD AID) di Dambisa Moyo (Recensione)

Colgo l’occasione della breve ma utile recensione del saggio di Charles Kenny – VA GIA’ MEGLIO – pubblicata su www.politicamagazine.info/ che ho particolarmente apprezzato, per aggiungere del mio, parlando di un altro libro sul tema che in parte conferma quanto l’autore ed economista britannico molto opportunamente espone.

Ormai, da anni, siamo stati abituati dai numerosi aspiranti profeti – di conio collettivista -, ai soliti proclami degli eterni incurabili pessimisti di piantone, afflitti da una specie di endemica sindrome contaminante alimentata dalla controversa fede nelle catastrofi annunciate, a loro tanto cara. In esse, i pretesi quanto sempre puntuali – veri o falsi – specialisti annunciano non solo la fine del benessere, ma nell’ assurdo tentativo di anticipare la realtà, dilettanti giudici, emanano sentenze sulla base delle logorate dottrine teoriche maltusiane, elevate a legge, che insieme ai militanti ecologisti predicono addirittura la disastrosa estinzione umana sul pianeta Terra per mancanza di spazio, di alimenti o di ossigeno. Accompagnati da un coro di chiassosi orfani del collettivismo, i seguaci delle nuove religioni: verdi, rossi, rosa, viola ed iridati rinnovano ad ogni occasione l’annuncio della distruzione dell’esistenza sul nostro caro e vecchio pianeta; e, se non bastasse, i poco tolleranti attivisti dell’ambientalismo militante accusano gli “egoisti” industriali di contaminare perfino l’universo che ci “gira attorno”… già perché noi stiamo fermi!Tutto un po’ troppo pretenzioso, naturalmente, ma ahimè molto, anzi, troppo attuale… Ebbene, proprio per aggiungere una voce stonata in questo unisono coro dei numerosi contumaci strilloni disfattisti di turno, incapaci di cavalcare un minimo di sano ottimismo, mi sembra opportuno complementare quanto Kenny osserva sullo sviluppo del benessere del mondo. Infatti, l’autore, spiega con tanto di numeri alla mano, come il mondo, di fatto, è migliorato – e non poco. Allora, si può aggiungere quanto sia falso l’assioma secondo il quale “nella misura in cui i ricchi diventano più ricchi, i poveri diventerebbero sempre poveri”. Questo è un concetto – anzi un preconcetto – completamente equivoco e gravido di forti contenuti ideologici, perché parte dal presupposto che la ricchezza è una specie di torta finita, ma non lo è e non lo sarà mai!

Qualsiasi persona di buon senso intende che la ricchezza non è statica, né finita, ma è in sostanza un ordine dinamico e che attraverso l’azione di individui anticonformisti e creativi, di distinto capitale umano – che non si può quantificare -, la dimensione della cosiddetta “torta” può aumentare di volume, come di stima, appunto, tramite ciò che si definisce “valore aggiunto”.

Pertanto, le fette sono variabili e tendono a crescere di dimensione, potendo essere distribuite fra coloro che contribuiscono o che partecipano – o meno –, a questo virtuoso processo di sublimazione, anche indirettamente. E Kenny dimostra come la torta, di fatto, è aumentata; e com’è aumentata! debitrice della conoscenza e del miracoloso dinamismo delle continue innovazioni e della conseguente produttività che ne emerge.

Del resto, non si può negare che il più prezioso dei patrimoni, parte espressiva di una Nazione e fondamentale appendice del progresso, nonché combustibile che movimenta il motore dello sviluppo, è la conoscenza. E qui sfido qualsiasi socialista a contestarmi quando affermo che la conoscenza non è finita; e – senza evocare le testimonianze di Popper o Polanyi – che la conoscenza è un ordine dinamico in espansione, ma che può anche subire ciclici processi regressivi, soprattutto, quando una società arriva al capolinea, si accomoda sui risultati raggiunti ed al modello che premia il merito, preferisce quello della militanza. Mi pare che questo sia proprio il nostro caso, dove la ricerca ha – per così dire – praticamente tolto il piede dall’acceleratore, mentre gli investimenti sono ormai inibiti dall’ingordigia fiscale e dalle eccessive norme che regolano i diritti di chi presta servizi in detrimento di chi potrebbe offrire lavoro ed opportunità. Ciò che ormai fatalmente condiziona il destino dell’Europa.

Ora, allungando lo sguardo ed eccettuando, naturalmente, alcune poche isolate Nazioni, la parte restante del mondo sembra proseguire la marcia del progresso. Invece, dove i politicanti motivati dalle diverse equivoche ideologie socializzanti, o condizionati dalla particolare incompetenza dei rispettivi governanti, se non addirittura indotti da una diffusa corruzione che impera ed intacca diversi settori delle loro società, questi dirigenti riescono perfino a far patire la fame ai propri cittadini che da sovrani sono ridotti a meri sudditi spettatori. Infatti, Paesi come Cuba, Haiti, Corea del Nord ed altri dell’ Africa non registrano alcun progresso, mentre in quasi tutti gli altri Paesi del pianeta – dove più, dove meno – il potere di acquisto in oltre un secolo non ha mai smesso di aumentare, anche perché numerosi beni e servizi costano meno oggi che in passato.

Come pure Ron Paul ne LA TERZA AMERICA opportunamente osserva, in alcune Nazioni dell’Africa regna una miseria, in parte, alimentata anche dall’irresponsabilità degli Occidentali; infatti, questo deterioramento è il risultato delle equivoche politiche che poi impediscono uno spontaneo sviluppo dei Paesi poveri, compromettendo l’equilibrio ed il benessere di centinaia di milioni di individui. L’autore libertario americano conferma le denunce della nota economista africana Dambisa Moyo che però non si piange addosso, ma spiega che l’Africa ha bisogno di essere integrata nel mondo produttivo. Ed è proprio al suo saggio – LA CARITA’ CHE UCCIDE (titolo originale DEAD AID)- che intendo riferirmi.

Ecco, noi bravi, caritatevoli e vanitosi Occidentali, abbiamo la presuntuosa pretesa di considerarci buoni e generosi perché crediamo che, distribuendo miliardi di Dollari a Paesi sottosviluppati, a titolo di aiuti umanitari, possiamo risolvere ogni loro problema di povertà; invece, senza rendercene conto, li alimentiamo, rendendo la gente addirittura dipendente.

Dambisa Moyo, giustamente, spiega molto bene come questo processo agisce: sono proprio questi ambigui aiuti che danneggiano molti Africani. L’Africa non ha bisogno di beneficenza ipocrita; il Continente ha bisogno di libertà ed opportunità; gli Africani possono e devono essere messi alla prova. E’ il nostro meccanismo di camuffato protezionismo che, in parte, li condanna all’esistenza di emarginati dal processo di sviluppo, ed esclusi dal ogni dignitoso livello di minimo benessere, sono esiliati alla condizione di indigenza, dovendo vivere come miserabili mendicanti denutriti ed appestati.

Ma la vocazione di questi Popoli non è di vivere di elemosina; anche loro hanno delle potenzialità e siamo – in certo modo – noi che impediamo alle stesse di esprimersi. In molti casi potrebbero sfruttare la loro più che naturale vocazione per le attività agricole e per la pastorizia, ma dinanzi alle politiche di sovvenzioni che i nostri governi concedono ai propri pochissimi produttori agricoli ed agli allevatori, questa povera gente non può fare altro che cercare di sfuggire alla miseria espatriando, avventurandosi magari sulle scialuppe della speranza che invadono le nostre coste, con immenso dissapore dei numerosi razzisti che popolano la nostra cara e vecchia saccente Europa. Eppure, proprio questi disperati, in fondo, vengono a riempire molti spazi vacanti nelle attività che noi stessi decliniamo, non volendo esercitarle, perché non abbastanza “degne “ del nostro elevato stato sociale…

E dinnanzi al crescente numero dei “nostri” che si accaniscono tanto contro questi “indesiderati” invasori, perché non stimolare i nostri agricoltori a dedicarsi piuttosto a prodotti tecnologici, eliminando pregiudiziali ed incentivando la grande capacità creativa di inventare nuove generazioni di prodotti che il mercato non conosce, ma che è sempre molto avido di innovazioni, ricorrendo appunto, alla genetica, come – forse – migliaia di anni fa hanno saputo fare gli Olmechi ed i Maya, sviluppando la prima pianta geneticamente modificata: il mais, tanto cara a noi “polentoni”.

Perché non lasciamo allo stesso tempo, ai Paesi sottosviluppati – o meno qualificati – la produzione che non richiede tanta competenza? Invece di elargire falsi, inutili e addirittura malefici aiuti senza alcun controllo e che non sono altro che forme di elemosina ottenute dall’esuberante tassazione di cittadini che da decenni non s’interessano più alla produzioni di barbabietole, di cotone, di latte o di care? E se non bastasse queste valanghe di denaro, di “aiuti umanitari” alla fine si destinano solo ad arricchire i peggiori governanti. Dambisa Moyo, infatti, ce lo spiega – ma lo sapevamo già – come questi generosi “aiuti” nel grosso sono soliti a gonfiare certi conti segreti nei paradisi fiscali, mentre nel piccolo si sprecano nei lussi, nei viaggi e nelle spese delle proprie consorti ed amanti di tutta una classe dirigente pigra e prodiga, nei negozi del lusso di Londra, Parigi, Roma o New York.

Smettiamo, dunque, di promuovere l’elemosina e cessiamo di concorrere slealmente con questi deleteri meccanismi che sovvenzionano la categoria del modesto numero degli agricoltori europei che non superano il 2% della Popolazione, liberando il restante 98% dalle imposte destinate a questi sussidi. Non interessano nemmeno a noi le centinaia di milioni di Africani dipendenti dalla carità occidentale. E questa pratica illiberale é realizzata stranamente anche dagli Stati Uniti. Lasciamoli produrre ed acquistiamo i loro prodotti, permettendo di stare accanto alle loro famiglie e che con i ricavati si possa investire in scuole, ospedali o finanziando anche industrie di prodotti che ormai nel nostro continente non si producono più, ma che possono elevare il livello di vita di questa gente, proprio come – secondo la Moyo – attualmente fa la Cina.

I Cinesi, sempre secondo la Moyo, sembrano aver meglio capito i principi che alimentano il motore del mercato: sono andati ad insegnare agli Africani a produrre quei prodotti, investendo anche nella produzione che poi, in cambio, possono acquistare in condizioni favorevoli e mentre gli Africani con il loro lavoro generano un po’ di rendita, essi aumentano la propria capacità di acquisto; e con ciò la Cina riesce a vendere prodotti di consumo.

Cosa stiamo aspettando, allora? E’ così difficile capire che dando loro l’opportunità di entrare in questo circolo virtuoso, accumulando capitale con il lavoro, poi, in cambio, potremo vendere loro le tecnologie che per ora non sono ancora in grado di produrre sul posto? O, se vorremo, potremo noi stessi produrre in loco per soddisfare un mercato avido di non solo ogni genere di prodotti di prima necessità, ma anche di quelli superflui destinati alle comodità.

LA CARITA’ CHE UCCIDE” è un’eccellente pedagogica lezione che i teorici dell’illusoria e nociva solidarietà istituzionalizzata, maestri di retorica e dell’obsoleto paternalismo politico dovrebbero imparare. Ora che esiste la versione tradotta anche in italiano, potrebbero leggerla, per finalmente capire che si può davvero fare qualcosa di più concreto, sensato, serio ed allo stesso tempo umano.

Vogliono tanto equilibrare i bilanci, riducendo le spese ed aumentando le tasse, ma perché l’Europa non si decide ad eliminare queste abusive ed assurde sovvenzioni all’agricoltura che poi in ultima analisi, se proprio non ci permetteranno di ridurre la pressione fiscale, almeno potrà contribuire a limitarne l’aumento?