Meccanismi di Sviluppo e di Progresso

Il Socialismo, dopo circa settant’anni di inevitabili insuccessi, ora, cerca di ritrovare una nuova via di sopravvivenza, ricorrendo alla solita usurata retorica parzialmente copiata dagli adepti della nuova religione dogmatica, “surfano” maldestramente sull’attuale onda dell’ambientalismo militante che, punta il dito contro il Capitalismo ed il consumismo, emulando i fedeli accoliti dell’ideologia delle tesi dottrinarie del Collettivismo, ed analogamente, si riducono a speculare su vaghe ipotesi astratte: questi perseguono la salvezza del pianeta, in cambio di sacrifici e rinunce, come gli altri promettevano l’immaginario mondo idillico del paradiso in terra, del mitico “buon selvaggio” in un avvenire prossimo, ma puntualmente rimandato ad un eterno domani, servendosi di ambigue interpretazioni proprie della realtà, mentre quella calamitosa dottrina dalle sue stravaganti teorie, con il suo effettivo rovinoso modello politico conclusosi con il fallimento, non ha ormai più il necessario vigore – e molto meno gli argomenti – per affrontare e resistere al pragmatico modello economico delle vincenti società aperte.
Ed in questo contesto, forzando ancora l’idea secondo la quale, il capitalismo sarebbe responsabile delle crescenti disparità economiche, dove i ricchi diventerebbero sempre più ricchi ed i poveri sempre più poveri, continua a cadere manifestamente nel falso, perché mai in tutta la storia umana, anche  – se non soprattutto – proprio le classi più umili non hanno mai goduto di un tenore di vita migliore come oggi.

In questo contesto, sopravvive uno dei soliti ed eterni luoghi comuni che proprio gli orfani del collettivismo coltivano e condividono con una certa ostinazione e particolare inutile perseveranza, l’intransigente avversione nei confronti delle multinazionali, considerate i più caratteristici e tipici simboli dell’avverso Capitalismo.

Gli attacchi alle multinazionali è uno dei soliti pretesti a cui gli adepti dell’obsoleto Collettivismo più si affidano; ed in questa pratica, oltremodo diffusa non solo i mancini, che poi si confondono pure con variegati simpatizzanti dei modelli statalisti e nazionalisti che, senza fare alcuna distinzione, cercano i rispettivi difetti, mettendo sul piatto della bilancia solo una parte di ciò che le caratterizzano.

Salomonicamente, niente di nuovo sotto il sole: il grande libertario Frédéric Bastiat, attribuiva già allora, agli albori delle nuove tesi del sinistrismo egualitario, il fatto che i devoti  accoliti di quelle astruse quanto oscure teorie, mostrano la loro abilità nel mettere in evidenza ciò che si vedeva, tacendo discretamente su ciò che non si vedeva… 

Del resto, è abbastanza comprensibile che costoro se  la prendano con le multinazionali; in fondo, esse costituiscono il principale ostacolo ai grandi monopoli nazionali chiusi su se stessi; infatti, essendo organizzazioni che solitamente seguono canoni ben definiti, adottando politiche comuni ovunque esse operino, normalmente, non possono deviare dalle norme generali, in vigore nelle proprie sedi; a meno che, in certi casi, in Paesi molto particolari, non siano indotte a scendere a compromessi con governi che hanno il potere di condizionare – magri con il ricatto – le loro pratiche, dove le regole le dettano, appunto, quelli che mantengono  le redini del potere salde nelle proprie mani.

In realtà, l’ostilità di chi difende modelli economici a predominante controllo politico, non dipende altro se non dalla solita nota riluttanza nei confronti di modelli economici liberi ed aperti, da parte di chi non riesce a capire i meccanismi del mercato che, come insegna il grande economista austriaco Ludwig von Mises, è come il linguaggio che non può essere controllato dall’alto verso il basso, essendo entrambi Ordini Spontanei proprio perché condizionato dall’universo dei sovrani cittadini, consumatori che hanno la prerogativa di poter esercitare le proprie preferenze.

Forte della base di osservazioni dell’altro economista della stessa Scuola Austriaca che aveva preceduto Mises – Eugen von Böhm-Bawerk, pubblicando la famosa STORIA E CRITICA DELLE TEORIE  DELL’INTERESSE DEL CAPITALE con cui, già nel 1884, aveva letteralmente demolito le fallaci tesi dei socialisti Pierre-Joseph Proudhon, Johann-Karl Rodbertus e principalmente di Karl Marx, ormai è considerato il legittimo padre del Collettivismo.

Infatti,  Böhm-Bawerk aveva dimostrato in modo eloquente, come alle semplici ore lavorate non poteva essere attribuito un valore intrinseco e ben definito; questo, perché il vero valore di un’opera, di un bene o di un servizio, dipende necessariamente dalla sua più o meno importante utilità, ugualmente, soggetta alle circostanze del tempo e del luogo; dipendendo, quindi, dall’abbondanze o rispettiva scarsità in rapporto alla richiesta che, a sua volta, non è incostante, secondo le imprevedibili necessità od aspirazioni degli individui che possono cambiare preferenza in momenti ed ubicazioni distinte.

Ebbene, come si sa, a solo pochi anni dalla deleteria Rivoluzione Bolscevica, Mises aveva descritto come il Collettivismo non avrebbe resistito, pubblicando il suo – possiamo certamente dire – profetico saggio SOCIALISMO

https://liberalismowhig.com/2008/12/17/mercato-e-valore-aggiunto/ 

in cui spiegava come in assenza di un mercato aperto – dunque libero -, sarebbe stato impossibile determinare il reale valore concreto di beni e servizi; infatti, in un mercato chiuso e protetto, i prezzi sono determinati da una cupola di burocrati teorici, incapaci di stabilirne il vero valore che i pragmatici consumatori riconoscono a beni e servizi, poiché, oggi possono avere delle preferenze per determinate offerte ed il giorno dopo, possono cambiare di predisposizione, a favore di altre opportunità.

L’offerta del mercato libero, pertanto, se vuole evitare l’insuccesso, deve sapersi adeguare a tali umori, mentre nelle economie pianificate, al contrario, non esiste né il tempo, né la volontà e molto meno la capacità di modificare i piani previamente stabiliti per adattarsi alle mutevoli tendenze.

Così, a settant’anni di distanza, dalle premonizioni di Mises, con la caduta del Muro della vergogna di Berlino, la cruda realtà dell’economia spontanea, ha fatto semplicemente crollare tutto quel fragile castello di sabbia costituito dal modello economico collettivista, mantenuto in piedi, artificialmente, da politiche coercitive, protette dalla prepotenza del potere totalitario che non esitava ad usare le armi in difesa della situazione, dove gli individui non avevano alcuna voce, e nessuna possibilità di scegliere o rifiutare ciò che il potere centralizzato presentava.

Ebbene, uno dei più tradizionali casi di critiche mosse alle multinazionali è quello che solitamente accusa in modo del tutto parziale, i produttori di farmaci, di speculare sulla salute delle persone ecc., dimenticando come lo sviluppo di mezzi e metodi possono essere messi a punto dalle industrie farmaceutiche, e che richiedono lunghi e costosi processi di ricerca e di sviluppo, contemplando costosi investimenti che possono anche non dare risultati a corto termine, ma che finalmente, dopo lunghi esperimenti possono portare all’elaborazione di cure contro quasi tutti i mali che affliggono ed affliggevano l’umanità, in passato, infinitamente più diffusi, prima che nascessero le detestate multinazionali.

Pertanto, non si può omettere come le multinazionali abbiano giocato e tuttora giochino un ruolo oltremodo importante nell’ambito delle economie di mercato, essendo le stesse sovente insostituibili nel libero sviluppo nel moderno progresso mondiale. Naturalmente, ciò non significa che in tale svolgimento non si siano commessi e non si commettano comunque errori. Va considerato, tuttavia, che il modello del mercato libero non è teorico, come lo sono le tesi che promettono un domani migliore che magri è continuamente rimandato ad un prossimo avvenire. L’economia in cui prosperano le multinazionali, invece, è pragmatica e solo può prosperare modellandosi e adeguandosi alla mutevole realtà; infatti, in tali circostanze, esse devono saper procedere, modificando le proprie rotte, correggendo i propri errori in tempi abili, alterando piani di produzione ecc.

Il mercato delle multinazionali non può seguire ostinatamente teorie astratte, ma come la stessa scienza, segue il metodo della sperimentazione, attraverso la correzione degli insuccessi, secondo il noto metodo di Galilei. Infatti, se un prodotto od un servizio non è accettato dal mercato, pur di seguire le preferenze dei consumatori (cittadini) che hanno la prerogativa delle scelte, i fornitori/produttori, devono sapersi adeguare prontamente; infatti sono i consumatori che, facendo le proprie libere scelte che condizionano l’orientamento dei produttori e dei fornitori; è la regola che fa parte del processo. 

Nel mercato aperto nessuno può essere obbligato a dissetarsi con Coca Cola, o consumare formaggio della Kraft, latte in polvere o cioccolato della Nestlé, od acquistare gelati della Unilever od utilizzare detersivi della Procter & Gamble lavarsi i denti con dentifrici della Colgatetanto per citare alcuni dei noti marchi.

Il consumatore ha la consapevole prerogativa e la libertà di accettare alcuni o tutti questi prodotti, facendo le proprie spontanee scelte secondo la propria convenienza in determinata situazione; o può semplicemente declinarli, se ritiene che siano in un certo senso, indirettamente, inadeguati od inopportuni.

Ragione per cui, è sempre corretto osservare che la discriminazione nei confronti delle multinazionali è non solo piuttosto settario, ma soprattutto un atteggiamento abbastanza ingenuo, proprio perché condanna organizzazioni per solitamente aspetti particolari, come considerazioni ideologiche o politiche, senza considerare che la loro importanza ed il loro eventuale successo, deriva dall’accettazione del pubblico; infatti, è sempre il risultato delle legittime preferenze ottenute dal mercato stesso, ossia per la volontà dei liberi consumatori (cittadini). 

Ogni tanto le multinazionali sono accusate di agire ecologicamente in modo scorretto. Certo, ci sono stati dei casi drammatici in cui anche le multinazionali si sono coinvolte in gravi e tragici incidenti ambientali – famoso il caso della DOW CHEMICAL nel 1984 a Bhopal in India, o della ICMESA in Brianza nel 1976. È chiaro che sono fatti deplorevoli, ma senza alcun dubbio, involontari.

Tuttavia, i detrattori del libero mercato, dovrebbero certamente essere al corrente dei catastrofici disastri ambientali nei Paesi a regime socialista scoperti dopo il fallimento dell’Unione Sovietica e dei suoi satelliti, dove le multinazionali non c’erano e non centravano, ma dove erano gli stessi regimi – socialisti – che controllavano l’economia e la produzione di “beni”, senza un intenzionale minimo rispetto per l’ambiente e tanto meno per le particolari preferenze di consumatori, trattati come meri sudditi.

Affinché si possa misurare la dimensione dell’importanza della presenza delle multinazionali, dunque, basta andare in quei Paesi, dove l’economia è ancora severamente controllata da un potere politico centrale asfissiante; e non dico come nel caso specifico di Cuba che, ai tempi in cui c’erano le multinazionali, costituiva la zona più prospera dell’America Latina, mentre oggi è fra le Nazioni più povere al mondo. O per prendere l’esempio attuale del caso del Venezuela che prima dell’avvento di Hugo Chaves e del suo degno successore Nicolás Maduro, due tiranni che hanno saputo trasformare un Paese che in termini di ricchezza, in America, era secondo  solo dietro gli Stati Uniti ed ora è una delle aree più depresse al mondo, grazie alle loro devastanti misure politiche ed economiche, dopo aver fato scappare le multinazionali, al punto di imporre alla propria Popolazione una tale penuria che solo in Paesi oltremodo sottosviluppati si conoscevano; esempio è, appunto, Haiti, dove predomina ancora oggi la miseria dovuta, proprio, all’assenza di multinazionali.

Del resto, i denigratori delle multinazionali, sembrano dimenticare come la loro presenza genera non solo innovazione, creando sviluppo e progresso grazie alle proprie esperienze, capacità di investimento, portando con sé  tecnologie, conoscenza, beni e servizi, creando principalmente occupazione.

Di fatto, l’arrivo delle multinazionali, modifica anche  le generali condizioni di lavoro oltre che a migliorare i livelli salariali, di solito, superiori alle medie esistenti localmente, perché i rispettivi stipendi, in genere, sono quasi sempre meglio retribuiti di ciò che praticano le imprese nazionali, prive della stessa esperienza e produttività, specialmente in regime di monopolio, di Paesi ad economia chiusa.

A questo proposito è utile notare come la piccola Corea del Sud, negli anni ’50/60, era ancora uno dei Paesi più poveri al mondo, mentre, grazie all’arrivo delle multinazionali – che a sua volta ha contribuito allo sviluppo di altrettante industrie ed attività nazionali -, ormai è diventata una vera potenza economica che registra, fra l’altro, più brevetti di diversi importanti Paesi europei (il nostro compreso), quando, allo stesso tempo, la vicina Corea del Nord – dove non ci sono le multinazionali -, la diffusa miseria continua la stessa. 

E, per concludere, tanto per dare la dimensione dell’importanza delle multinazionali, basta ricordare com’erano arretrate le economie cinesi ed indiane ai tempi rispettivamente di Mao Zedong o di Indira Gandhi, quando le multinazionali non c’erano. Oggi, al contrario, da quando i nuovi regimi hanno stimolato gli investimenti da parte delle multinazionali, i due colossi si sono trasformati in Potenze campionesse in crescita economica. Non per niente un evidente benessere sta sostituendo la miseria che aveva caratterizzato le loro economie pianificate. E questo dovrebbe servire da esempio a coloro che nutrono tanta avversione ingiustificata per l’odiato Capitalismo delle multinazionali.