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I SETTE PECCATI DEL CAPITALEdi Tito Tettamanti (Recensione)

La virtù di chi genera ricchezza da distribuire.

I soliti sostenitori della dottrina anticapitalista, come pure gli ostinati seguaci della nuova religione – così l’ha definita Vaclav Klaus nel suo ottimo saggio PIANETA BLU E NON VERDE –, ovvero gli orfani del fallimentare collettivismo che, in qualche modo, tentano di dare ulteriore sopravvivenza ai loro utopici dogmi, cavalcando istericamente l’onda dell’ambientalismo, partono sempre dal fallace assioma secondo il quale gli eventi sul nostro pianeta  si presenterebbero in maniera statica e non sarebbero dinamici e mutevoli come avviene con gli stessi fenomeni climatici. Dunque, a sentir loro, tutto si svolgerebbe in funzione di un presente noto, prevedibile ed immobile, a prescindere da ciò che possa avvenire. Perciò, il processo evolutivo seguirebbe solo le vie secondo i principi che essi stessi, dotati dalle loro presunte profetiche doti interpretative. Infatti, con la pretesa di possedere la virtù di saper indovinare e prevedere l’avvenire, possono indicare soluzioni, imponendo soggettive verità rivelate.

Seguono i dettami delle loro dottrine, professando la fede delle loro certezze, mentre noi, modestia a parte, un po’ più umili, al contrario, consapevoli delle nostre limitatezze, ci lasciamo guidare non da certezze, bensì dagli imprevedibili dubbi. Pertanto, in un ambiente in cui tutto cambia continuamente, non ci possiamo lasciarci ingannare dal passato, né condizionare da piani fissi, ma cerchiamo di adeguarci alle circostanze.

Il prestigioso Premio Nobel per la letteratura Octavio Paz, ha cercato di spiegare questa tendenza in un suo eccellente saggio EL OGRO FILANTROPICO (Il Mostro Filantropico), in cui osserva come i Messicani preferiscono guardarsi indietro, illudendo il loro pensiero con la grandezza del passato, piuttosto di meditare più criticamente sul presente e proiettare lo sguardo, in maniera più pragmatica e costruttiva, al prossimo avvenire. Questo vizietto è un po’ ciò che abbiamo in comune quasi tutti noi latini. Così, invece di stuzzicare le nostre speranze, nutrendoci di energia positiva, sforzandoci individualmente ad aggiungere il nostro piccolo mattone alla costruzione del progresso, ci saziamo di ciò che abbiamo ereditato dalle generazioni precedenti, credendo di poter vivere sugli allori che altri hanno capitalizzato. Ossia, piuttosto di sforzarci aggiungendo del nostro, tendiamo a rassegnarci accontentandoci di conservare ciò che ci sembra sufficiente.

Lo  giustifichiamo, avvalendoci del paradigma secondo il quale l’ambizione sarebbe un peccato, mentre virtuoso sarebbe chi si rassegna soddisfatto del suo poco.  Questo modo di ragionare del conservatore non riconosce le inesauribili capacità degli individui di progredire, di fare, di avanzare, magari anche sbagliando, potendo tuttavia correggere i propri errori in funzione dei risultati a cui si giunge attraverso l’empirica sperimentazione. Invece, convinti della necessità di dover provare senza temere di sbagliare, siamo noi i veri progressisti: non per niente le migliori lezioni si traggono dagli errori.

Non dimentichiamo che, se fin dai primordi i nostri predecessori avessero seguito questo modo di concepire, rassegandosi ed accontentandosi della propria condizione, oggi, certamente non saremmo qui a comunicarci da un continente all’altro in tempo reale, muovendo semplicemente l’indice su di un complesso ma altrettanto pratico aggeggio elettronico, mentre domani basterà la semplice voce. Così, senza questo straordinario progresso, l’estensione del mondo degli individui continuerebbe a limitarsi ai propri primitivi villaggi, vivendo alla giornata, subendo gli eventi passivamente, soggetti ad ogni genere di superstizione, totalmente ignari delle proprie condizioni, e soprattutto inconsapevoli delle proprie molteplici capacità di evoluire e di migliorare.

Ebbene, in questo saggio il competente economista svizzero Tito Tettamanti, propone una efficace refutazione alle critiche, in difesa dei principi sui quali si basa l’iniziativa privata che Marx, in modo molto spicciativo, definiva “capitalismo”. Evidentemente, il noto teorico del collettivismo, non aveva capito bene la vera indole degli individui; certo, a suo tempo, non poteva confrontarsi con e tesi di Ludwig von Mises o di F.A. von Hayek, né leggere LA VIRTÙ DELL’EGOISMO di Ayn Rand. Infatti, immaginare che si possa essere semplicemente privare gli umani di quella potente arma di difesa costituita dall’egoismo è, a dir poco, molto ingenuo: l’egoismo di fatto è una specie di corazza che ci protegge dalle minacce, ma è pure il motore che ci fa muovere; esso agisce nel nostro organismo come una specie di allarme dettato dalla fame, dall’incertezza, dalla paura, mentre le certezze, la sicurezza o la sazietà, sono quei segnali di soddisfazione che inibiscono l’azione ed agiscono come freno allo sviluppo, ostacolando pure la creatività che, a sua volta, deriva dalle improvvise ed imprevedibili distinte necessità.

L’egoismo non è una colpa né un peccato, bensì un elemento biologico innato senza il quale i nostri atavici ancestrali non avrebbero avuto l’intuizione di ricorrere alle pietre per rompere involucri contenenti alimento; né imparato a difendersi dagli aggressori armandosi di pezzi di legno o lanciando  pietre. La condanna di questo nostro mezzo di difesa, quindi, non è l’unico errore di Marx e professato dai suoi seguaci; non ha capito nemmeno un principio basico dell’economia. Infatti, attribuendo al lavoro un valore intrinseco e fisso, ha dimostrato di non aver recepito il valore mutevole del capitale che ogni  singolo individuo dispone per poter reagire alle proprie insoddisfazioni e cambiare ciò che gli sembra perfettibile. Anche il valore del lavoro è relativo e strettamente legato alle preferenze degli individui che cambiano a secondo del momento e del luogo, condizionando così la scarsità e l’abbondanza. Più sono gli individui che aspirano a qualche cosa, più aumenta la domanda e diminuisce la rispettiva disponibilità. Pertanto, il desiderio o l’egoismo di ciascuno ne condizionano il valore.

D’altra parte, è sempre opportuno notare che la stessa virtù dell’altruismo deriva da una certa forma di egotismo; infatti, noi agiamo a favore di terzi mirando alla nostra particolare ambizione di soddisfare noi stessi. Spesso rinunciamo a qualcosa per favorire qualcuno, ma indirettamente, ciò produce nella nostra più recondita intimità, enorme soddisfazione. Dunque, è la consapevolezza di rendere felice altri che genera in noi un senso di adempimento, di appagamento.

Inoltre, a chi continua a dar credito a certe contradditorie conclusioni avverse al “capitalismo”, per capire dove stanno le loro spicciative contraddizioni, sarebbe utile che leggessero con un minimo di attenzione Adam SmithFrédéric Bastiat.

E così come sbagliavano i teorici dell’egualitarismo, anche l’assioma di Cartesio induce all’equivoco; infatti, sosteneva che noi esistiamo per il fatto di possedere la facoltà di pensare; l’errore ce lo fa notare Antonio Damasio che spiega molto bene come noi, al contrario, pensiamo perché esistiamo e non esistiamo perché pensiamo. Ed un inganno similare lo commette un’ altra icona delle tesi della sinistra: Freud.  L’epistemologo ginevrino Jean Piaget osserva come il fondatore della psicanalisi, analogamente, inverte le fasi, attribuendo un subcosciente ai feti ancora prima di sviluppare una coscienza; il subcosciente può solo essere conseguente alla coscienza. Non a caso, la coscienza prende forma solo dopo un certo sviluppo del cervello umano che deve acquisire quei sensi che non ha ancora completato nell’ambiente chiuso del ventre materno; ecco che il neonato, osserva con gli occhi,  tocca con il tatto, magari portando al suo organo più sensibile – la bocca – assimila nuove sensazioni, nuove nozioni di tutto ciò che può raggiungere per meglio conoscerne il sapore, il peso, la natura; solo così, a poco a poco impara ad interpretare la realtà terrena, attribuendo, nei propri limiti, una misura della propria dimensione in rapporto a ciò che lo circonda. Allora, con il passare del tempo, forma la consapevolezza di se stesso in funzione delle esperienze acquisite, della storia registrata nella sua mente, dove si formerà anche il suo subcosciente. D’altro canto, nessun neonato può avere nozioni prima di realizzare esperienze che gli procurano una conoscenza. Sappiamo, inoltre, come ai poppanti nati prematuri, privi dell’udito e della vista, non si sviluppa affatto il cervello; questi sono destinati a sopravvivere come semplici vegetali.

Le tesi che gli adepti al socialismo difendono, sono quasi tutti ambigui paradigmi artificiali ai quali si ricorre nel tentativo di sostenere le proprie fallaci teorie prive di alcuna concreta base realistica; sono congetture con cui si intende difendere concetti puramente presumibili che, alla luce della realtà pratica, tendono sovente perfino ad invertire i valori, quando non hanno addirittura la pretesa di anticipare eventi che solo possono essere confermati o confutati nel tempo; Così promettono di poter realizzare soluzioni – la felicità per tutti – che solo esistono nella loro immaginazione. L’evoluzione, invece segue un suo  specifico corso, proprio come l’acqua che scorre spontaneamente in cerca della via di uscita più facile; segue un percorso naturale, in un susseguirsi di tappe di continui cambiamenti e adattamenti all’ambiente circostante. Analogamente, l’evoluzione produce mutazioni che portano a continui sviluppi ed a risultati in funzione del tempo e del luogo, a prescindere dalle pretese che ci possiamo prefiggere o che certe teorie suggeriscono, ma che di fatto, e al di sopra di ogni previsione, richiedono la necessaria convalida dimostrata dai fatti. Come apprendiamo dalla lezione di uno dei più acuti osservatori scientifici – Galileo – è la prova dell’esperienza che deve convalidare la tesi, in mancanza della quale le supposizioni sono solo teoriche. Ed infatti, la bella retorica della seducente ideologia o della miracolosa religione può molto spesso incantare i benpensanti, ma non potrà mai sostituire la pragmatica ed empirica esperienza.

Di fatto, tutto il castello di carta sul quale si sostiene l’utopica ideologia egualitaria socialista ed i rispettivi argomenti contro il capitale, omette un fondamentale elemento intrinseco del capitale: quello del capitale umano, per intendersi, e cioè, la particolare capacità che noi umani abbiamo di trasformare valori relativi in valori aggiunti; valori che con il  passare del tempo possono essi stessi cambiare. E qui vale ricordare la lezione di Popper che ci insegna come la conoscenza non ha limiti, che la ricerca non si esaurisce. Così come la fonte energetica dei primitivi raccoglitori era la legna e lo sterco, poi, siamo passati al carbone per più tardi sostituirlo con il petrolio che fra una generazione, molto probabilmente, sarà sostituito  da fonti rinnovabili che abbondano, come le energie eolica, solare, dell’idrogeno e quant’altro. Possiamo anche immaginare che in avvenire sapremo sfruttare le stesse energie che dominiamo attualmente, in modi molto più razionali di oggi, perché no? Non solo perché potremo limitare gli sprechi, ma esistono già soluzioni che non si applicano perché non ancora a punto e non abbastanza economiche.

I nostri antagonisti che credono di poter confutare il modello che Ludwig von  Mises ha giustamente definito ordine spontaneo del mercato partono dalla contraddittoria tesi che si può, in primo luogo prevedere l’avvenire ed a tale scopo insegnano a credere per vedere; inoltre, dichiarano che le risorse naturali hanno un valore fisso e limitato alla propria disponibilità, senza considerare che l’abbondanza e la scarsità dipendono sì dalla richiesta ma a prescindere anche dal fatto che le stesse risorse possono essere modificate. Noi che crediamo al mercato, siamo – se non proprio più umili -, certamente più prudenti e consigliamo di aspettare, di vedere prima di affidarci a conclusioni definitive che sono sempre incerte. Infatti, gli aspiranti profeti sostengono che le risorse e quindi, la ricchezza siano di dimensione finita, come se si trattasse di una grande torta, dove chi ha fette di dimensione superiori le possiede in detrimento di chi ha fette più piccole o addirittura non ha nemmeno le briciole. Invece, la ricchezza non è un bene finito e non può essere quantificata perché essa è costituita soprattutto, se non principalmente, dal fatto che il capitale umano ci permette di cambiare e addirittura invertire certi valori; infatti, tale capacità proporziona agli umani più creativi ed intraprendenti la prerogativa di trasformare qualcosa di comune in qualcosa di eccezionale.

I soliti detrattori di quello che noi definiamo Circolo Virtuoso – e loro chiamano in modo del tutto riduttivo “capitalismo” -, continuano a sostenere che l’iniziativa privata sta non solo distruggendo il pianeta, ma sta addirittura esaurendo anche le sue risorse naturali; ebbene, ciò che la storia ci insegna è che non solo non abbiamo esaurito la legna, né il carbone e molto meno il petrolio, ma che al contrario, nella misura in cui si  elaborano nuove tecniche, si scoprono nuovi mezzi più economici, più pratici e maniere più razionali per renderli, se non più abbondanti, ma certamente più accessibili; perciò, lasceremo da parte le fonti ormai obsolete e meno economiche. Ed ecco che qui Tettamanti ci spiega molto bene come, nel corso dello sviluppo siamo passati dal ricorso di materiali che sembravano esaurirsi, ma che poi, grazie alla ricerca, sono stati meglio utilizzati, riciclati o sostituiti; un caso specifico è quello del rame destinato alla produzione di cavi, ormai in molti casi, sostituiti dalle fibre ottiche.

E come già  accennato, la scienza non si ferma perché la conoscenza non ha fine; sappiamo pure che il genio croata Tesla aveva già compiuto esperimenti in parte ancora poco chiari; fenomeni come l’accensione di lampadine elettriche senza alcun contatto fisico; fenomeni di esplosioni provocate a grandissime distanze e così via. E nel frattempo, l’iniziativa privata ha prodotto i transponder grazie ai quali siamo in grado di ricevere, accumulare e trasmettere dati anche a grande distanza senza alcun contatto fisico diretto; e ciò, conferma l’affermazione di Popper che il futuro è aperto e che le vie da scoprire sono infinite; dunque, abbiamo ancora molta strada che possiamo percorrere e se c’è ancora molto da fare, piano, piano ci arriveremo; le prossime generazioni avranno l’occasione di imparare molto di più come noi abbiamo superato i nostri  predecessori.

Questo dovrebbe insegnarci a non privilegiare la fede, la militanza, bensì il merito, premiando coloro che hanno la capacità di portare a frutto le proprie iniziative; bisogna incoraggiare quelli che sono in grado di contribuire alla riduzione dei divari che separano le differenze che distinguono chi ottiene da chi non possiede. Dobbiamo facilitare le opportunità, permettendo ad ognuno di mettersi alla prova, di fare uso delle proprie potenzialità e ciò non si raggiunge dando udito a semplici promesse di un avvenire migliore, poi eternamente rimandato ad un prossimo domani. L’autore menziona, giustamente, gli studi di un altro importante economista, il peruviano Hernando de Soto che nel suo saggio IL MISTERO DEL CAPITALE descrive come nei Paesi poveri e sottosviluppati, la gente, è indotta spesso ad agire nell’illegalità per migliorare; e nonostante le difficoltà inventate dalla burocrazia, riesce ancora a far fruttare il proprio ingegno, schivando le limitazioni  e scavalcando gli ostacoli che il potere politico prepara, in assenza dei quali, essi potrebbero generare valore aggiunto non solo per se stessi ma aumentando la dimensione della torta da spartire, potrebbero creare ricchezza partendo da poco e da distribuire.

Eppure, così come oggi, i naufraghi del socialismo rifugiatisi nell’ambientalismo, i sedicenti indovini che ci predicono la morte del nostro pianeta agonizzante, oltre un secolo e mezzo fa un altro degli indovini di turno Thomas Malthus con la sua famosa teoria della progressione geometrica, aveva anticipato che in breve il pianeta non sarebbe più stato in grado di sopportare ed alimentare la futura Popolazione; ebbene, abbiamo superato anche la meta di questo aspirante profeta del pessimismo, migliorando la vita della grande maggioranza degli individui; e se ai suoi tempi i manovali lavoravano fino a 14 ore al giorno per tutta la settimana solo per poter acquistare il pane, quando la carne e gli abiti erano il lusso di pochi, mentre superare i 70 anni era già un sogno di molti e la mortalità infantile era altissima. Invece, già 50 anni fa buona parte degli operai, lavorando non più di 8 ore al giorno, poteva aspirare ad avere in casa le comodità che nemmeno i principi avevano ai tempi di Malthus. Se questo utopista potesse vedere come la maggior parte della Popolazione mondiale vive oggi, non ci crederebbe e dovrebbe riscrivere le sue previsioni. Analogamente, il suo seguace neo-malthusiano Paul Ehrlich, nel 1968 pubblicava l’opera apocalittica  LA BOMBA DEMOGRAFICA, anticipando il presunto catastrofico futuro, annunciava che la fine era alle porte e che  al ritmo della nostra crescita, non ci sarebbero state risorse per alimentare tanta gente.

E checché possa sostenere  l’illusionista Thamas Piketty l’ironia vuole che le tecnologie lo hanno sconfessato; infatti, al contrario, oggi si producono infinitamente più alimenti; in tutto il mondo occidentale si mangia fin troppo e la miseria si limita solo a determinate aree geografiche, e guarda caso, proprio nelle società chiuse, dove il mercato non è libero e l’iniziativa privata è strettamente controllata da quei pochi che detengono le redini del potere. Ebbene, l’ambientalista talmente sicuro delle sue ingenue certezze, era stato sfidato ad una scommessa da un giovane economista americano, Julian Simon, autore di THE ULTIMATE RESOURCE, sostenendo che alla conclusione del decennio 1980-1990 cinque materie prime a scelta di Ehrlich sarebbero costate di meno; Ehrlich dava per scontato che erano destinate a scarseggiare  e che i rispettivi prezzi sarebbero aumentati di molto. Purtroppo, per lui, le sue profezie lo avevano tradito, infatti, pur essendo la Popolazione cresciuta di 800 milioni di individui, quelle  materie, di fatto, si erano deprezzate; fra queste, appunto, anche il rame. All’aspirante chiaroveggente, quindi, non restava che pagare la scommessa persa.

Insomma, Tettomanti oltre ad essere un eccellente autore, è pure un prestigioso economista, uno di quei rari intraprendenti individui che grazie alle proprie capacità ha saputo salire la scala del merito, gradino dopo gradino, mettendo alla prova le proprie competenze ben oltre i confini della sua piccola Svizzera, fino a raggiungere vertici della direzione di importanti società internazionali. E la Svizzera è un singolare esempio di Paese con poche risorse naturali, ma ricco di capitale umano. Dunque, si è confrontato con il mondo, distinguendosi anche come stimato difensore degli ideali di libertà; infatti, è considerato un esimio conferenziere specialmente di politica; è pure membro e dirigente di accreditate associazioni ed entità culturali di rilievo, fra le quali, anche di uno dei più influenti “think-tank” italiani, l’Istituto Bruno Leoni; entità ispirata ad uno dei più brillanti pensatori liberali del nostro Paese, autore di un’Opera inizialmente scritta in inglese, FREEDOM AND THE LAW, divenuto saggio di riferimento nell’ambiente del liberalismo in tutto il mondo, ma ahimè quasi sconosciuto in Patria anche se tardivamente tradotto nella nostra lingua, con il titolo LA LIBERTÀ E LA LEGGE.

In conclusione, questa efficacissima difesa che l’autore qui propone a favore delle iniziative individuali, egli smentisce quanto i devoti delle utopie egualitarie dichiarano; contesta gli ostinati detrattori del mercato aperto, al quale attribuiscono gli imperdonabili peccati del capitalismo. Considero questo saggio oltremodo attuale anche perché, nella difficile situazione in cui tutta l’Europa si trovai,  mette di buon proposito il dito nella ferita aperta; infatti, Tettamanti dimostra, come non è la libertà che compromette l’economia, ma l’interferenza del potere politico, insieme alle sue appendici burocratiche che hanno fermato la crescita e lo sviluppo economico del nostro continente. Sono questi indottrinati influenzati dalla pessima pratica di pianificare che, con la loro deleteria determinazione di dover dirigere e condizionare ogni settore produttivo che hanno finalmente prima ingessato le iniziative, per poi far inceppare buona parte dei meccanismi di quella che è l’economia aperta.

Purtroppo, sono gli eredi del fallimentare socialismo, credendo che il mercato possa e debba essere guidato, lo condizionano politicamente. Invece, essendo un ordine spontaneo, è costituito dalla somma in cui i sovrani consumatori manifestano liberamente le loro legittime aspirazioni e preferenze. E’ utile insistere che si tratta di un ordine che conferisce la vera cittadinanza agli individui, liberandoli dalla sudditanza e dalla prepotenza di chi ha la pretesa di sapere meglio di loro quali sono le proprie preferenze. Infatti, nel regime di libera iniziativa sono gli individui stessi che, nella loro dignità, senza ciecamente delegare terzi, dettano con le proprie libere scelte ciò che preferiscono in determinati momenti e luoghi, a chi si dispone a proporre beni e servizi, potendo i consumatori cambiare idea a qualsiasi momento a favore di qualcos’altro che nemmeno loro stessi possono prevedere con anticipo, proprio perché un giorno abbiamo delle preferenze ed il giorno dopo possiamo averne di altre che si possono presentare più convenienti od attraenti. Pertanto, sono i fornitori che debbono adeguarsi ai consumatori, e non sono i politici né le loro indifferenti appendici burocratiche che possono decidere ciò che è meglio per loro. Dunque, la crisi che l’Europa attraversa, è il risultato di politiche equivoche di cui possono essere responsabilizzati solo i nostri dirigenti, che inventando normative e mettendo paletti a tutte quelle virtuose iniziative che se fossero liberate potrebbero finalmente generare la ricchezza che fino a poco tempo fa riuscivano a distribuire secondo il merito. Invece, la politica si intromette con la pretesa di distribuire equamente, monopolizzando la solidarietà, ma ricorrendo ai suoi criteri soggettivi; tuttavia, la generosa solidarietà non va destinata ai militanti, bensì a chi la natura ha veramente riservato condizioni sfavorevole ed avverse, non potendo essere autosufficienti.