La rinascita o sopravvivenza dello statalismo

Un interessantissimo ed oltremodo opportuno articolo di Francesco Gavazzi – Ma Parigi è un modello? – suggerisce che siamo, purtroppo, ancora una volta sulla strada dell’ ambiguità, in totale controcorrente in rapporto a ciò che avviene oggi altrove nel mondo. In Europa, infatti, nonostante le disastrate esperienze stataliste, si continua ancora a credere all’ efficienza del potere pubblico che, secondo i preconcetti e le preferenze di una certa classe politica, è giusto condizionare l’ economia e guidare le tendenze, sostituendo le naturali preferenze del pubblico, rinnovando dunque la fiducia agli eterni deleteri interventi politici, contro il naturale sviluppo dettato dall’ ordine spontaneo del mercato. In altre parole, dopo aver vissuto gli effetti negativi del condizionamento politico nell’ economia mondiale e nella sua produzione, ci si ostina a seguire un obsoleto modello che il tempo stesso ha condannato. Malgrado ciò, si insiste ancora con cieco accanimento a credere al modello maldestro ed equivoco preconizzato dalla confutata dottrina di Keynes.Non è per pura coincidenza, quindi, se in buona parte dell’ Europa occidentale siamo ancora al livello dell’idolatria di un messianico Stato, con lettera maiuscola, naturalmente, perché questa entità dovrebbe rispondere a chissà quale sacra Divinità, da venerare ed alla quale si annoverano attributi magici, grazie al cieco ed incondizionato credito nella sua mitica infallibilità. Del resto, sulla perversa infallibilità del potere pubblico abbiamo diversi e recentissimi esempi forniti dalle imbarazzanti decisioni della stessa magistratura italiana… Eppure i successi dei Paesi emergenti dovrebbero servire da parametro; infatti, alcuni di questi vedono le loro economie crescere a vista d’occhio, proprio per aver optato per la liberalizzazione del sistema, restituendo i mezzi di produzione ai privati; e, sciogliendo le catene del potere centralizzato, dal quale tutta l’ attività economica dipendeva, dopo aver rinunciato all’assurda politica di pianificazione che, contrariamente alle promesse della sua dottrina, non ha affatto distribuito ricchezza, ma solo penuria e miseria, quando non sangue e lutti. Lo straordinario esito della Cina e dell’India ci dovrebbe insegnare che la strada del moderno progresso non è più quella della ridistribuzione della ricchezza mediante l’azione del potere politico, bensì quella delle libere attività che distribuiscono la ricchezza in modo spontaneo e libero, senza la guida dell’autorità politica, e quindi all’ ombra della prepotente tutela statale e della logora politica del troppo longevo Keynes.

Del resto, è più che noto che quando l’avido potere pubblico, dall’alto del suo piedestallo, agisce per soddisfare il proprio insaziabile vorace appetito, esso impone la raccolta dei tributi, ricorrendo alla sua onnipotente fatale presunzione di, non solo saper gestire meglio dei privati le risorse prodotte, ma nella sua illusione pretende anche di conoscere dove si muoveranno le preferenze degli individui in un avvenire ancora incerto. Intanto, non si sbaglia solo sulle preferenze del pubblico, potendo queste cambiare con il semplice alterarsi delle condizioni meteorologiche, ma si inganna manifestamente pure nella sua presunta capacità di gestire meglio la ricchezza che solo l’ignoranza fa sembrare eterna.
Infatti, di solito, solo una minima parte di quanto raccoglie avanza per essere applicata e destinata in modo adeguato ai fini prestabiliti; e solo le briciole del patrimonio riscosso, in maniera coercitiva, raggiunge gli scopi per i quali erano previste fin dall’inizio. Il grosso serve, in genere, per coprire le spese dell’ oneroso apparato adibito a riscossione, controlli, gestione e remunerazione di meccanismi inefficienti ed obsoleti. Si pensi solo al ricorso fiscale medievale costituito da marche da bollo o da carta bollata ed a tutte quelle pratiche anacronistiche di cui la piovra burocratica del potere politico ancora oggi fa ampio uso.

Pertanto, la logica suggerisce che niente giustifica più l’intervento del potere politico nelle attività che i privati assolvono egregiamente, rispondendo ai propri interessi, certo, nell’ intuito di soddisfare allo stesso tempo le aspirazioni e le preferenze del pubblico pagante. Eppure, l’eco stonata delle anacronistiche dottrine di Keynes risuona ancora nelle sale e nei corridoi dell’ oscuro potere che, nuovamente, le fa uscire dal suo stato critico di coma e di morte apparente, esaltandole con enfasi attraverso gli organi di diffusione simpatici alla causa del partito, di buona parte del nostro esausto, demoralizzato continente pessimista.

Tutti sembrano convinti che qualcosa non funzioni più nel nostro vecchio sistema; troppi ormai sanno che qualcosa deve urgentemente cambiare, perché l’Europa non ha solo perso la sua competitività, ma non riesce nemmeno più a ritrovare la sua tradizionale creatività. L’egemonia tecnologica della vecchia Europa, ormai, non è che un vago ricordo ed allora il coro nostalgico si rianima e chiama in causa la solita magia di Stato e le sue false capacità di ricreare ciò che in passato aveva prodotto la fertile immaginazione dei singoli individui.

In questi ultimi mesi, un po’ ovunque, si è tornati a discutere molto di rilancio della ricerca; ed il puntuale coro politico di molte voci, che invoca la consueta prepotente azione del potere pubblico, si è fatto nuovamente sentire; e le voci non si limitavano a provenire solo dagli integranti d’ inclinazione totalitaria di sinistra, ma perfino da voci stonate di una certa destra ambigua. Cos’altro ci si può attendere quando c’è da gestire il denaro altrui in nome degli interessi della collettività? I politici, allora, diventano virili come i più fecondi galli e più attivi di formiche che si affrettano irresistibilmente attratte dal seducente aroma del miele.

Se, invece, guardassimo cosa succede altrove, forse capiremmo che gli investimenti li debbono fare i protagonisti dell’iniziativa privata a proprio rischio e per un semplice motivo: essi sono sempre orientati dalle esigenze di mercato che è e sempre sarà il motore principale del benessere delle Nazioni. I privati sanno che le preferenze dei consumatori oggi possono essere di una determinata natura, ma che domani potranno cambiare in funzione delle preferenze dei capricci degli stessi individui, i quali, ad un tratto potranno dare priorità ad altri tipi di consumi, piuttosto che a quelli anteriori. Seguire gli umori di queste tendenze non è facile; infatti, richiede ininterrotta versatilità e rinnovata prontezza di reazione. Per cogliere i frutti delle opportunità che il mercato offre, è sempre necessario saper agire non solo con tempestività, ma anche con rinnovate doti creative che solo l’ attività dei singoli individui può produrre; e questo perché nell’iniziativa privata l’efficienza premia l’abilità, mentre l’inefficienza può condurre a fatale insuccesso. Indovinare la giusta ricetta in un dato contesto può generare un premio ed allora ci vogliono risposte corrette e tempestive che l’ inerte azione burocratica pubblica, per tradizione lenta, non conosce.

Abbiamo tutti i motivi per preoccuparci dell’invecchiamento tecnologico europeo, del ritardo o meglio della reticenza da parte dei nostri operatori e ricercatori ad investire ed inventare nuovi prodotti. Infatti, Paesi come la Corea, che solo qualche decada fa integrava i Paesi più arretrati al mondo, oggi sono chiaramente all’avanguardia, in assoluto fra i primi al mondo nel registro di brevetti. Questo dato dovrebbe indurre a meditare, mentre noi, qui ci limitiamo a discutere, che la divinità dello Stato deve elargire mezzi ai nostri Istituti d’insegnamento superiore, affinché questi tornino ad operare nella ricerca. Ma chi deve orientare i ricercatori delle nostre Università a realizzare certi studi? I partiti politici? I docenti universitari? I tecnocrati? E quali altri sapienti profeti di turno? E cosa capiscono i politici e gli educatori, i tecnocrati non solo di economia e di industrializzazione, ma di preferenze del pubblico e dei consumatori? Questi dirigenti capiscono verso quale orientamento si rivolgerà la preferenza di domani? Come potranno gli aspiranti indovini di sempre predire dove il consumatore sarà disposto a spendere le proprie rendite e risorse? Come al solito, la risposta a questi quesiti sarà sempre incerta.

Ma se non lo sanno i dirigenti ed i “saggi” come potranno indovinarlo i privati che non partecipano alla guida ed all’istruzione delle nostre Nazioni? La risposta sta in un grande equivoco che ci ha condotti fuori strada da molto tempo: il mercato non è il prodotto dell’azione voluta da una minoranza, bensì quello della volontà di tutti: il mercato è il risultato di tutte le tendenze degli individui; e per questo il mercato è come la lingua che si parla: un ordine spontaneo. Non sono i linguisti che decidono come si parlerà per strada, come non sono i politici, né gli economisti che potranno guidare il mercato. Le decisioni vengono dal basso e gli operatori non potranno fare altro che adeguarsi alle circostanze.

Fra tutti un esempio eloquente: quando, negli anni ’70, si discuteva quale sistema di TV a colori l’Italia doveva adottare: allora, era noto che il migliore modello era il PAL tedesco, ma i nostri dirigenti erano inclinati politicamente verso il SECAM dei cugini francesi.


Per non prendere una decisione, hanno cercato di guadagnare tempo e l’Italia rimaneva uno degli ultimi Paesi al mondo a vedere le partite di calcio – e la propria realtà – in bianco e nero… Ecco come si rivela l’incapacità del potere pubblico di capire le aspirazioni della propria popolazione, mentre l’iniziativa privata, se non vuole soccombere, deve rincorrere ad ogni costo e momento le incerte reazioni e preferenze dei suoi più validi sostenitori, che sono quelli che si recano presso le reti di distribuzione per fare le proprie libere scelte.

I nostri dirigenti si dovrebbero chiedere per quale motivo le invenzioni più pratiche che dominano i mercati del nostro tempo, non escono dalle sale di ricerca delle Università europee… La maggior parte delle innovazioni della modernità, infatti, sono state concepite negli uffici di ricerca privati, commissionate magari ad istituti tecnici. Gli operatori sono scommettitori e rischiano su se stessi, puntando sulla sensibilità e sulla disponibilità del mercato in un certo contesto, di accettare o di rifiutare determinate nuove invenzioni e dove tecnici commerciali devono seguire molto attentamente da vicino, giorno per giorno, l’ orientamento e l’incerto umore di critici consumatori e le preferenze del difficile pubblico.

L’Europa, che in passato ha dato lezioni di libera iniziativa, oggi, è in mano a burocrati di una prepotente quanto poderosa cupola di presunti “saggi” che legifera dai palazzi di Bruxelles, palesemente incapace di capire e di recepire l’evoluzione del mondo moderno. Essa ci ricorda quella casta dei “saggi” della Repubblica di Platone o dell’ Isola del Sole di Campanella: nelle isolate lontane sale di riunione decide, a porte ermeticamente chiuse come, secondo loro, dovrà evoluire il mercato. Questa vera casta consuma parte della ricchezza delle Nazioni e delle risorse dell’Unione che solo un’iniziativa privata efficiente produce; tuttavia, senza stimolarla e reinvestire i propri utili in Europa, perché il nostro continente, ormai alla deriva, non è altro che un vero stato sociale onnipotente, dove si decide la ricetta di ingredienti per produrre il cioccolato, la granulometria delle farine, lo spessore delle fette di formaggio o di salame, dove manca solo che domani il Leviatano prescriva agli individui se, quando ed in che posizioni potranno fare ancora all’amore.

E così, nel nostro caro e vecchio continente si distruggono i suoi migliori valori, costituiti dalle diversità; con un piede nel passato e l’altro nel labirinto del nichilismo, dopo aver costituito, in altre epoche, il centro del pianeta, mentre sta perdendo perfino la propria identità, perde il proprio prestigio e diviene zona marginale; non più locomotiva del treno del progresso, ma solo uno dei tanti vagoni che viaggiano su binari a scarto ridotto. I treni dello sviluppo circolano in Cina, in India, a Hong Kong perfino in Brasile e viaggiano a velocità distinte da quelle prescritte dai nostri ambigui burocrati coadiuvati dagli isterici militanti di partito in difesa dei propri oscuri interessi. E mentre economia e produzione ristagnano, in Europa la ricerca si è inceppata e la sapienza emigra altrove. Seguendo questo indirizzo non riusciremo mai a mantenere il loro passo, anzi. Noi Europei, ma in particolare noi Italiani, abbiamo bisogno di un bagno di umiltà, per ritrovare l’entusiasmo perso e liberarci dal pessimismo che secondo un sondaggio condiziona oltre la metà dalla nostra popolazione. La realtà europea è definitivamente cambiata; non è più quella del passato e dovremmo finalmente rendercene conto, perché siamo diventati mera periferia.

E non c’è da meravigliarsi se poco a poco le nostre società industriali e commerciali in crisi vengono assorbite una dopo l’altra da Asiatici, come sta già avvenendo, e non per mantenerle in esercizio, ma per poterne sfruttare il potenziale commerciale ed approfittare i loro canali di distribuzione!

La diagnosi di questo stato di salute non è nemmeno più di “prognosi riservata”, bensì di fine prossima annunciata, da un intermittente segnale rosso di allarme, verso uno stato di irrevocabile profonda depressione. Per tentare di capovolgere questo grigio quadro, esiste solo un’alternativa, la vecchia ricetta di sempre: lasciare che le società europee e le loro attività tornino a respirare per essere remunerative; questo è solo possibile con una decisa riduzione della pressione fiscale. Lo stimolo – ad investire in moderni impianti – sviluppare tecnologie innovative, non può rinunciare al ritorno di lucrativi risultati utili. Le aziende capaci di registrare nuovamente bilanci positivi ed attivi, ritroveranno il naturale fomento a riprendere la ricerca per creare nuovi prodotti che il mercato dei Paesi in forte sviluppo non hanno ancora scoperto od inventato e che non potranno immediatamente essere imitati.