I mali italiani del nostro tempo…

Pubblicato pure su Liberal Café http://www.liberalcafe.it/index.php/author/dataplug/

Pubblicato pure su www.politicamagazine.it

Fino a poco tempo fa, molti sociologi del pessimismo si chiedevano se il nostro benessere non ci avrebbe condotto verso il vicolo cieco del nichilismo; infatti, le nuove generazioni, ormai in grado di soddisfare tanti desideri e, avendo fin troppe scelte soddisfatte, stavano perdendo perfino le più lecite ambizioni e, non pochi individui, di fatto, si rifugiavano nelle esperienze più stravaganti dei vizi e della droga. Ma gli individui hanno bisogno di perseguire mete e come la grande scrittrice Ayn Rand insegna, l’ambizione e l’egoismo non sono vizi, bensì virtù; virtù biologiche; infatti, è attraverso fame, necessità, paura che l’umanità è giunta a questo progresso. Inoltre, se non avessimo sofferto la fame; se non avessimo avuto incertezze; se non conoscessimo il timore, in noi non si sarebbero formati i sensi di responsabilità né di prudenza.

L’eccesso di soddisfazione, al contrario, agisce come deterrente, inibisce l’azione; lo notiamo chiaramente nel comportamento dai predatori: una volta sazi, sospendono la caccia e se ne stanno tranquilli a riposo. Fra gli umani, il soggetto soddisfatto perde la curiosità, mentre l’insoddisfazione lo stuzzica. L’abbondanza, invece, dissuade l’iniziativa e fa accomodare la gente che cessa di coltivare perfino le proprie aspirazioni. E’ un po’ ciò che affligge la nostra nuova generazione; ed a questo, in parte,  ha contribuito, senza dubbio, anche il nostro deleterio modello politico che, per decenni, aveva stimolato la gente a focalizzare più i propri diritti, relegando i doveri, ambizioni e addirittura i meriti a piani secondari. Ma, pare che questo ciclo si stia esaurendo…

Ricapitoliamo: il potere pubblico si era arrogato l’inutile – se non perversa – missione di rimediare alle naturali differenze di indole e sorte fra gli individui, cercando di mettere un po’ tutti sullo stesso livello, con l’utopica pretesa di soddisfare, magari, ogni più elementare bisogno, condizionando pure le spontanee inclinazioni e predisposizioni che la natura riserva ad ognuno. Dunque, l’ambizione da virtù era stata ridotta a peccato, il merito quasi ad una colpa. La politica, perciò, sentendosi in diritto di appropriarsi di parte dei risultati ottenuti dagli individui con le rispettive specifiche creative iniziative e, forte dell’autorità regolata da leggi emanate dal coercitivo potere pubblico, s’è attribuita la discrezione di poter sequestrare i frutti dello sforzo dei migliori, cioè, di chi non si accontentava della propria semplice iniziale situazione; così, il prepotente ed equivoco sistema burocratico, da ambiguo “buon” mecenate, ha confiscato per distribuire arbitrariamente parte di tale ricchezza, perfino a coloro che, magari, non aspiravano nemmeno a migliorare la propria condizione, soggetta ai più semplici sacrifici.

Ai più dotati, abili, competenti, attivi e meritevoli, questo sistema trasmetteva una specie di avviso, secondo il quale sforzarsi e rischiare l’insuccesso non generava benefici: meglio accontentarsi e lasciare che le cose seguissero il proprio corso per inerzia, rafforzando perciò, la delega alla casta, deputata a pensare non solo al nostro presente, ma addirittura al  futuro delle successive generazioni. Insomma, sulla base della teoria, giustificata dalla solita retorica, ipotecava, di fatto, l’incerto avvenire. Quindi, nel tentativo di profeticamente anticipare gli eventi, con la dottrina delle certezze, la piovra legava le mani a parte del nostro Paese! Non per niente, questa entità artificiale con la sua tentacolare struttura, ha sprecato non solo la ricchezza esistente al momento, ma perfino quei presunti valori che avremmo dovuto produrre, se l’andazzo avesse potuto continuare a quel ritmo, dettato dagli interessi de mercato e della libera iniziativa.

Certo, allora, le cose proseguivano fin troppo bene; tutti crescevano e – chi più chi meno – partecipava a quello straordinario, quasi miracoloso sviluppo. Ma quel depravato spirito di invidia, dalle remote origini – ed al quale si potrebbero dedicare trattati -, alimentato dal rancore che ne deriva, ha spinto forze politiche cieche e sorde a fissare paletti, elaborare norme restrittive, elevando ostacoli ed istituendo imposte punitive proprio a chi più contribuiva al progresso nazionale. Conseguentemente, in un mondo divenuto più piccolo, con le informazioni che ormai circolano in tempo reale, dove tutti imparano a sfruttare l’informazione, accessibile grazie alla globalizzazione, molti altri individui, meno limitati o soggetti a restrizioni, imposte ideologicamente all’umana azione, sono entrati nella sfera dello sviluppo e del progresso. La tecnologia, accorciando distanze ha, quindi, fatto il giro del globo a ritmo sempre più accelerato; e, se ieri l’Europa costituiva il centro tecnologico del mondo, nel frattempo, l’epicentro era passato agli Stati Uniti, prima, e da qui, a poco a poco, si è avviato verso l’Asia, seguendo il movimento della luce, com’è sempre avvenuto nel tempo. Oggi, Paesi come la Corea, sulla scia dello sviluppo giapponese, registrano più brevetti di quanti ne registri, forse, tutto il nostro continente; ed ora anche i suoi vicini, Cina, Taiwan, Malesia, Tailandia e addirittura il Viet Nam ecc.,  ormai, usufruiscono delle stimolanti esperienze del mercato e della modernità.

Da noi, invece, ed in maniera particolare nel nostro caro e povero Paese, per decenni, un più che sospetto modello politico, ha pericolosamente guidato la nostra gioventù verso affollate carriere – diciamo – umanistiche; come se la modernità potesse saziarsi di teorie… E questa è una delle tante cause per cui, oggi, abbiamo un’eccedenza di “pensatori” disoccupati, senza prospettive, mentre manca un enorme numero, non solo di pragmatici tecnici, ma anche, se non soprattutto, di abili ed utilissimi prosperi artigiani. Infatti, fra i tanti mali che emergono dalla gestione della nostra insensibile classe dirigente pubblica, c’è quello di aver voluto consolidare fra ai cittadini-sudditi il concetto che la dignità non è una meta da raggiungere con le proprie potenzialità, bensì, un semplice diritto al lavoro… Eppure, nella nostra modesta visione liberale, l’autentica  dignità è qualcosa di differente, proprio perché, per principio, consideriamo i diritti, delle conquiste da meritare; più pragmaticamente, la vera dignità dev’essere vista come un valore che si deve guadagnare attraverso la realizzazione delle individuali capacità, non tanto per diritto, ma anche con l’effettiva applicazione delle singole potenzialità.

E così, l’emerita classe di nostri bravi imprenditori che si era distinta e sviluppata, con onore, adeguandosi al mercato, alimentata dalla vocazione e dall’indole individualista che caratterizza in maniera così peculiare noi Italiani, al punto di farsi notare ed apprezzare anche all’estero, proprio per quell’intrinseca creatività, alla fine, non ha generato un altrettanto degno ricambio generazionale. La creatività è il prodotto della diversità di idee; infatti, è un ordine che nasce non dalla pianificazione, né dall’organizzazione, ma – oserei dire – dal disordine, dall’anarchia; particolarità che agli Italiani improvvisatori, non  mancano. Ma, hanno pianificato un effimero benessere, senza incentivare l’innovazione. Ed ora, non c’è da meravigliarsi se la nostra decadente Nazione, priva di opportunità è considerata il paradiso dei mammoni, dove non è la forza della gioventù che aiuta i vecchi, come è sempre stato in passato, ma tocca alla generazione degli anziani portare sulle spalle il peso dell’immenso contingente di giovani nulla o poco facenti, in parte sostenuto dall’avido modello fiscale che solo soffoca ancora coloro che sarebbero in grado di generare nuova ricchezza da indirettamente distribuire in maniera spontanea.

Insomma, questa “bella” inversione di tendenze e di valori ha messo in fuga molti imprenditori ed altri  si sono adagiati o rifugiati nell’abulia. Di questa degenerazione, possiamo ringraziare i nostri bravi pianificatori. Non a caso, oggi, esaurita l’onda del crescente sviluppo, in questa inerzia, non siamo più minacciati di finire nel vicolo cieco del nichilismo per eccesso di benessere, ma stiamo abbracciando un altro pericolo: la sindrome del pessimismo. In un ambiente ingessato, la gente si nega a seguire il coraggioso esempio di genitori e nonni, quando questi con i propri umili bagagli partivano in cerca di lavoro – di qualsiasi natura –, attraversando frontiere ed oceani, pur di non vegetare nella miseria. Oggi, molti nostri pargoli preferiscono starsene a casa, piangendosi addosso, a lamentarsi, non volendo andare a fare i precari perché il lavoro che pretendono fare – di sacrosanto diritto – è quello per il quale sono stati preparati: dunque, meglio integrare la grande moltitudine dei disoccupati mantenuti da volenterosi, compiacenti, arrendevoli e tolleranti genitori.

E’ triste, ma dobbiamo ammettere che nel giro di poco più di mezzo secolo, siamo passati dal “pericolo” dell’alienazione prodotta dal timore della fame, alla generale indifferenza contaminante, generata dalla passività – a sua volta – stimolata dal sistema, alla diffusa incapacità di reagire. Insomma, ci stiamo arrendendo alle circostanze con biasimevole rassegnazione. I giovani, ormai   abituati all’inerzia, si ostinano a rifiutare di prendere in considerazione attività alternative. Eppure, le opportunità esistono ancora, ma ahimè, certe mansioni sono considerate troppo umilianti.

Poi, magari, ci si meraviglia se tanti stranieri, provenienti dalle più disparate zone del mondo, spesso con scarsa conoscenza delle più basiche espressioni della nostra lingua, accettano qualsiasi occupazione, iniziando con umiltà a salire i gradini della scala del progresso, per poi addirittura intraprendere attività in proprio. Intanto, i nostri,  con quell’immodestia, considerandosi il più astuto dei Popoli, assistono al successo di questi milioni di immigranti con crescente frequenza. Eppure, spesso arrivano per mare, su scialuppe di salvataggio, senza nemmeno un fagotto, coni la sola speranza: dal Nord e Centro dell’Africa, vanno in Sicilia ad integrare  l’esercito di raccoglitori di agrumi, di pomodori in Campania; gli Indù, addetti curano le vacche che danno il buon latte per il prestigioso formaggio Parmigiano; manovali Musulmani lavorano in nero, spesso in condizioni disumane, anche per disonesti imprenditori edili; i Sudamericani fanno i  camerieri  e le domestiche; cuochi e lavapiatti provengono dalla Cina e dall’Egitto; altre donne di servizio arrivano dalla Romania, badanti dalle Filippine; infermiere dalla Polonia e dall’Argentina: tutti a coprire spazi vuoti lasciati vacanti dai nostri e sono sempre più frequenti i casi di immigrati che, con il proprio risparmio, rilevano punti di vendita e di ristorazione da vecchi esercenti che si ritirano  per godersi il meritato riposo della vecchiaia…

Ed intanto, i nostri, se ne stanno ad aspettare tranquillamente che qualcuno prepari loro la strada alla comoda carriera dietro una scrivania per arrivare alla serena pensione, senza nemmeno chiedersi con quali mezzi, l’amministrazione pubblica, potrà accumulare il  capitale necessario a sostenere tanta gente a riposo – anche non tanto anziana -, con i fondi di pensione deficitari. Senza contare le casse vuote dell’erario, già da decenni, incapace di mantenere la miriade di dipendenti pubblici che non generano ricchezza, ma ne consumano più di quanta serve a tutto il settore privato il quale, però, deve essere autosufficiente o è destinato a perire.

Ecco che a questo punto, il Bel Paese si trova con un’inutile ed assurda eccedenza di dottori in diritto, in scienze politiche, in scienze della comunicazione ed altrettante materie con scarsissime prospettive di impiego che, nella migliore delle ipotesi, trovano da fare i “porta borse” dei numerosi carrieristi  politici, mentre i meno fortunati, gonfiano le file dei milioni di disoccupati, quando allo stesso tempo, il prospero artigianato agonizza per la crescente carenza di rinnovamento, in parte coperto da immigrati, che  familiarizzandosi con il nuovo ambiente, dopo aver resistito ai sacrifici della “gavetta” – che i nostri declinano -, ma che questi stranieri affrontano con naturalità, pur trattandosi di attività oltremodo umili, trovano poi, in premio, anche i modi per finalmente accedere a spazi meno faticosi ed umilianti e perfino ad impieghi prestigiosi, meglio remunerati.

In conclusione, dunque, è davvero urgente chiedersi quale prospettiva ci possiamo attendere in questo avverso ambiente? Cercare le ragioni che hanno condotto all’attuale preoccupante situazione, forse, è superfluo. Noi liberali, però, crediamo di conoscerle; da  decenni ci ostiniamo a denunciarle pubblicamente; le descriveva già bene Bruno Leoni, ma ne parlavano pure quei saggi Luigi Sturzo ed Einaudi nelle loro “inutili prediche”: è l’irresponsabilità dottrinaria, la demagogia politica, l’illusione abilmente camuffata dall’ipocrita retorica del dogma ideologico dell’equivoco altruismo, con cui si spacciano le menzogne, specie quelle di poter vivere al di sopra dei nostri mezzi per tanto tempo, mentre è ormai evidente che siamo giunti al capolinea. La presente palese congiuntura ci dovrebbe insegnare come non è più possibile continuare a consumare ciò che L’Italia non produce da tempo. Infatti, non possiamo eternamente sprecare un’ipotetica ricchezza del futuro, lasciando in eredità delle prossime generazioni, l’onere di coprire debiti contratti da un’imprudente, prodiga classe politica mossa da paternalista populismo.

Vogliamo interrompere questo declino per, in fine, almeno tentare di riprendere la crescita? Allora, è assolutamente imprescindibile restituire l’interesse a coloro che hanno idee, iniziative e la capacità di innovare. E’ fondamentale riconoscere a questi paladini il diritto di ottenere risultati economici, senza estorcere il profitto, permettendo loro di usufruire liberamente degli utili ottenuti, stimolandoli non a nascondere ciò che riescono ancora a ricavare, ma incentivandoli a guadagnare ed a reinvestire parte del lucro, senza togliere loro tutto ciò che riescono ad accumulare perché, in tal caso, si corre il rischio di rendere sterile proprio quell’ordine che fino a pochi anni fa aveva costituito un modello di capacità esemplari, quando eravamo riusciti a scalare un progresso, partendo da una precaria posizione di misero Paese, appena uscito dal disastro della guerra persa.

Se non facciamo qualche passo indietro, abbandonando il timore di rischiare e di formarci i calli alle mani, la migliore delle prospettive ad attenderci sarà quella di vederci invasi non solo da chi non teme il sudore, senza necessariamente andare incravattati ed in abiti firmati. L’Italia, in passato, è già stata dominata dall’occupazione di invasori stranieri per oltre un millennio; ora, una nuova onda è in attesa di riversarsi sulla stessa strada: numerose organizzazioni straniere ci osservano con appetito, pronte a sfruttare le potenzialità del nostro decadente, ma bisognoso mercato. Non perderà l’opportunità di acquistare le nostre debilitate società, in crisi ed in svendita, pur  disponendo ancora di buone quote di un sistema produttivo e di distribuzione. Questo processo è già in atto da un po’; e sembra proprio che gli unici a non rendersi conto che è imperativo reagire in modo adeguato, sciogliendo quei nodi che legano ed immobilizzano il libero esercizio dell’iniziativa privata, sono i politici e quelle forze, solite a definirsi “parti sociali”, come se fossero queste le uniche depositarie dello sviluppo e del benessere nazionale. Invece, è giunta l’ora di girare pagina; fare una decisa svolta sull’utile esempio dato, a suo tempo, dalla straordinaria coraggiosa Margareth Thatcher, rilanciando il lavoro e ridare impulso alle potenzialità degli imprenditori. Ma, ahimè, non abbiamo una Thatcher!

Lasciamo perdere quelli che predicano “l’ozio creativo”; creativo è il bisogno! E gli incalliti politicanti con le loro teorie, guidati da sindacalisti, ancora succubi dei propri preconcetti, sono da anni richiamati alle loro responsabilità; dovrebbero capire che non siamo un’isola, ma che bisogna essere in grado di affrontare i concorrenti stranieri a parità di condizioni. Purtroppo, non vogliono rinunciare ai privilegi -, ottenuti in decenni di ricatti e dei loro governi paralleli -, avvalendosi dei più deleteri corporativismi, giustificati dalle logorate equivoche dottrine egualitarie. Dovranno pur ammettere che si sono dati la zappa sui propri piedi e che ormai non c’è più tempo né spazio per la demagogia… Gli Italiani devono imparare a guardare oltre le apparenze e sono conclamati a non lasciarsi ingannare ancora dalle loro letali certezze dottrinarie che promettono lo splendente – ma più che incerto – avvenire, puntualmente lo rimandano ad eterno ipotetico domani.

Sono, infatti, proprio queste stesse prepotenti forze che – con le loro dogmatiche certezze – hanno distribuito, a piacimento, ciò che non avevamo ancora prodotto; e dopo aver messo in crisi, praticamente, tutto il nostro sistema produttivo, in piena globalizzazione, invocano protezione, rifiutando le più legittime regole della competenza e della competitività di mercato. Questi stessi indottrinati, mossi ideologicamente sulle falsarighe delle loro spurie teorie, con cui per decenni hanno promesso miraggi, in detrimento della prosperità economica allora in atto, ora vorrebbero alzare barriere, isolando il Paese dal resto del mondo, pur di salvaguardare equivoci e onerosi privilegi ed ambigui vantaggi corporativistici che, con le misere risorse rimaste, non possiamo più sostenere, senza subire le disastrose conseguenze che ora viviamo.

Ormai, non siamo più soli a dominare le tecniche e se vogliamo difenderci dai presunti “attacchi” commerciali esterni da parte di Nazioni che hanno preso il gusto a prosperare, lavorando in funzione delle aspirazioni degli ansiosi consumatori, non ci resta altro da fare che spremerci le meningi, rimboccandoci le maniche, senza più perseguire le vane utopie che hanno guidato l’Italia verso questo vicolo cieco, sul ciglio di un oscuro baratro. A meno che ci si rassegni a diventare colonie degli attivissimi Asiatici, conviene spiegare agli ignari cittadini che l’allegria è finita e che non è più possibile continuare ancora a vivere nel lusso con tutte le comodità senza sforzi, senza  minimi sacrifici e senza meritare certi vantaggi che ognuno deve guadagnare con il solo giusto merito.