ANTI-PIKETTY – Capital for the 21st. Century (Capitale per il 21° Secolo) 

di Jean-Philippe Delsol, Nicolas Lecaussin e Emmanuel Martin (Recensione)

Illusionismo Neo-Marxista. Quando l’Araba Felice si rivela sterile.

Di Karl Marx è già stato scritto abbastanza e dal momento che ormai la sua stella non brilla più da parecchio tempo, per cui, non è nemmeno più il caso di tornare a riferire oltre l’essenziale, sul personaggio – rimandando magari alla lettura della biografia riassuntiva dell’esimio autore inglese Paul Johnson ne GLI INTELLETTUALI -, anche se il padre del Collettivismo, a torto od a ragione, si considerava il paladino della classe proletaria, mentre la sua reputazione passata alla storia non è affatto la migliore. Eppure, c’è nuovamente chi torna sui suoi notori equivoci per criticare chi, con le rispettive iniziative, di fatto, genera ricchezza, che poi, in parte, in modo aleatorio viene distribuita, a vantaggio delle grandi maggioranze. Invece, ecco chi vorrebbe riabilitare le sue ambigue se non addirittura deleterie tesi economiche, nonostante queste siano già state estensivamente confutate, prima da Eugen von Böhm-Bawerk ed in seguito da Ludwig von Mises e da tutta una classe di competenti economisti di tutto il mondo e finalmente dalla stessa storia.

A voler sostenere che le ingiuste disuguaglianze fra gli individui, sarebbero da attribuire al Capitalismo, questa volta, è un ossessionato neo-marxista – seppur non si riconosca tale. Infatti, il più recente tentativo di redimere un Collettivismo dal volto nuovo, in chiave moderna, con la pretesa di compensare attraverso l’arbitraria espropriazione, a favore di coloro che non riescono ad accumulare miliardi, penalizzando appunto quel numero dei più intraprendenti, capaci, competenti e più meritevoli, ci prova  l’economista socialista francese Thomas Piketty che, prendendo in prestito il vecchio successo dell’opera di Marx – IL CAPITALE –, seppur superata, egli nel 2014 lancia CAPITALE PER IL XXI SECOLO viene accolto immediatamente come enorme successo mondiale.

Sì, proprio perché riaccende le speranze, già perse, a tutta una miriade di militanti orfani impenitenti quanto ostinati collettivisti nostalgici, sconfitti dalla realtà per mezzo dall’economia di mercato dell’Ordine Spontaneo che difende le libertà individuali e di scelta, dopo reso in macerie il Muro della Vergogna di Berlino, seguite dal fallimento di tutto il sistema dell’impero sovietico, al punto che lo stesso Gorbačov, nel tentativo di salvare il salvabile, ha fondato la sua Green Cross International  – organizzazione ambientalista – che, insieme alla militanza ecologista disperatamente cerca di ostacolare il progresso economico proporzionato dal consumismo, fomentando il rispettivo conseguente sviluppo industriale, dal quale deriva il benessere, superando la scarsità, in un modello che distribuisce prodotti e servizi per la soddisfazione di buona parte della Popolazione mondiale.

Ebbene, Thomas Piketty rispolvera invece il vecchio mantra del Capitalismo “meschino e disumano” che non farebbe altro che aumentare le disparità, dove, nella misura in cui i miliardari aumentano il proprio patrimonio, aumenterebbe pure il numero dei diseredati e degli sfruttati. A questo punto, tutta una serie di prestigiosi economisti che non solo non condividono sue conclusioni, ma dimostrano come l’autore, da una parte anche in modo poco corretto, ricorre a indici abbastanza contraddittori e dall’altra pubblica dati statistici discutibili, per non dire, addirittura inventati.

Ed ecco che ad alzare gli scudi nei confronti della voluminosa opera ci pensano tre autori liberali francesi: Jean-Philippe Delsol e Nicolas Lecaussin – rispettivamente presidente e direttore di sviluppo dell’IREF (Istituto di Ricerche Economiche e Fiscali), oltre all’economista Emmanuel Martin membro di diverse entità economiche internazionali, i quali, prendono l’iniziativa di coordinare, pubblicandole con il titolo ANTI-PIKETTY – Capital for the 21st. Century, una serie di alcune delle diverse reazioni critiche all’analisi, emerse in diversi Paesi del mondo e qui, in questa mia recensione, proverò a riassumerle a partire dal testo in lingua inglese. 

In questo contesto Delsol e Martin all’epilogo di questo libro, fanno notare che di fatto, il corpulento trattato di Piketty ha riscosso un enorme successo mondiale, anche perché per molti doveva giungere come una specie di Araba Fenice che rinasceva dalle proprie ceneri,  resuscitando dalla decadenza il Collettivismo. Immaginavano che il saggio avrebbe ridato nuova energia all’ideologia che con l’insuccesso del sistema sovietco, aveva subito una devastante sconfitta. 

Eppure, è ben vero che le vendite di questa nuova versione moderna del Capitale sono state impressionanti raggiungendo una miriade di copie; tuttavia, è anche vero che dei lettori di Kindle che Amazon, in modo simultaneo registra, risulta che in media il numero di pagine lette effettivamente, si ferma alla pagina 26 o giù di lì, mentre il limite del punto saliente si concentra addirittura all’introduzione. Per cui, la sua spirale in concreto, è drasticamente ridimensionato dai fatti che si dimostrerebbe che il successo è stato piuttosto superficiale: un fuoco di paglia. Del resto, è ben noto che la maggior parte dei militanti collettivisti, pur menzionando con insistenza le opere del guru Marx, in realtà, non le hanno mai lette nemmeno e sovente si arrampicano sugli specchi per difenderne le tesi, secondo le quali il Capitale tende a concentrarsi nelle mani ad un numero sempre più ridotto di ricchi, mentre i poveri fatalmente aumenterebbe fino a quando ciò dovrebbe far scoppiare la rivoluzione proletaria, senza contemplare che, nella realtà storica, è avvenuto proprio l’opposto. 

Non a caso, Delsol osserva come, fa giustamente notare il prestigioso economista americano StevenHorwitz – 

https://liberalismowhig.com/referenze/steven-horwitz/– che l’OECD (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) ha constatato come la più forte riscossione sul reddito del 10% della Popolazione più povera è associata alla più forte tassazione sul reddito dei più ricchi. Infatti, Horwitz aggiunge che fra gli anni 1980 e 2006 i nuclei familiari degli Stati Uniti che guadagnavano meno di 75.000 $ all’anno da 81% sono scesi al 70%, mentre quelli che guadagnano più di 75.000 $ da 19% sono saliti al 30%, ossia, un aumento di oltre il 50% dei più benestanti; per cui, si dimostra che un numero maggiore di nuclei familiari è uscito dalla classe media per entrare nella classe dei ricchi, di quanto i poveri usciti dalla povertà, per integrare la classe media.

Alla premessa di ANTI-PIKETTY, il liberale Tom G. Palmer Vice Presidente del Cato Institute, autore di saggio internazionalmente noti – https://liberalismowhig.com/referenze/tom-g-palmer/  – commenta, tra l’altro, che nell’analisi Piketty si è limitato a riferire essenzialmente l’aspetto delle disuguaglianze economiche, ma che ci sono ben altri aspetti che avrebbe dovuto mettere sui piatti della bilancia, e cioè, per esempio, il Capitale Umano – nel quale le persone investono moltissimo – costituendo questo, dunque, fattori altrettanto importanti, come lo sono lo studio, l’addestramento, dove le disuguaglianze in circa secolo sono fortemente diminuite. Inoltre, per dimensionare le disuguaglianze non si possono occultare i privilegi concessi dalla politica e, quindi, all’ombra del modello economico; infatti, in molti Paesi che ha avuto occasione di visitare, l’intervenzionismo da parte dei governi ha generato tutta una serie di discriminazioni tra i potenti ed il resto della Popolazione. E, se non bastasse, bisogna pure considerare le diseguaglianze, in rapporto alla giustizia, ossia, allo specifico accesso al sistema giudiziario ed in generale alla diseguaglianza nei diritti. Potrei aggiungere che, in un Paese come l’italia, dove una causa può andare avanti per anni ed anni, è la legislazione a creare disuguaglianza…

All’introduzione si esprimono gli stessi Jean-Philippe Delsol 

https://liberalismowhig.com/referenze/jean-philippe-delsol/ – insieme ad Emmanuel Martin – 

https://liberalismowhig.com/referenze/emmanuel-martin/ – e cominciano ad avvertire sull’importanza del potere delle idee, essendo le parole delle armi che possono causare molti danni. Piketty ha ottenuto molti elogi dalla Sinistra che dopo il collasso del Comunismo e dell’insuccesso del Socialismo, era in forte necessità di nuovi riferimenti. Ci voleva un nuovo impulso di conio “scientifico” dopo che le profezie di Marx non si erano confermate. Tuttavia, Piketty commette lo stesso errore, concentrandosi su di un unico aspetto economico, mentre la società è infinitamente più complessa. Essa è continuamente creativa, sfugge alle categorie in cui gli ideologi pretendono ridurla. Allo stesso modo, l’economia non si riduce a numeri finiti, essendo soggetta a cambiamenti e sviluppi imprevedibili. È tipica degli ideologi, come nel caso l’autore, la pretesa di costruire un mondo ideale perfetto e che per realizzarlo, sono disposti a distruggere il mondo reale pur di seguire il loro sogno. 

Infatti, è comune fra di loro, ricorrere alla semplicità, annunciando l’apocalisse; tuttavia, quelli che hanno già annunciato tali profezie, – MalthusRicardo, e Marx sono stati smentiti dalla stessa storia. Ecco che anche la visione dell’autore – Piketty – è ancora quella pessimistica della somma zero; dove chi ha di più, lo avrebbe a scapito di chi ha di meno; egli non dà peso a fattori come la mobilità sociale, l’accesso all’istruzione, alla longevità, disuguaglianze che si sono fortemente ridotte nel corso degli ultimi secoli, ma soprattutto dall’Ottocento alla fine del Novecento. Ma Piketty, come i suoi compagni, è ossessionato dall’accumulo di capitale che gli impedisce di capire, il resto, credendo che la tassazione, o meglio l’esproprio di 80% della rendita di pochi, al di sopra di un certo valore, gestita dai governi che si arrogano la capacità di saper distribuire meglio, possa compensare le aspirazioni degli individui. 

È utile osservare come Delsol e Lecaussin riepilogano il fatto che il sindaco di Londra Boris Johnson si vantava di poter guidare la city con il maggior numero di miliardari perché poteva contare sull’elevato volume di tasse che poteva riscuotere da loro. Ebbene, il primo ministro laburista Gordon Brown, con l’idea di riscuotere in totale 7,2 £ miliardi in più, eccedendo il tetto di £ 150.000  annue, ha aumentato l’imposta sul reddito dei ricchi dal 40% al 50%; tuttavia, due anni dopo, la riscossione da £ 116 miliardi, era scesa a £ 87 miliardi: una perdita secca di £ 30 miliardi. Il primo ministro liberale David Cameron, invece, decideva di ridurre la percentuale dell’imposta delle rendite superiori a 45% e, mentre con Brown il totale di imposte riscosse dai più ricchi corrispondeva al 20%, con Cameron la riscossione del totale dei ricchi aveva raggiunto il 29,8%. Del resto, è più che noto, come le percentuali più alte, di solito, generano la conseguenza di riscossioni più basse. Sembrerebbe una contraddizione, invece, gli autori spiegano che le tassazioni dirette più basse e stabili, di fatto, aumentano la fiducia; infatti, quando si crede al futuro, gli operatori portano avanti i propri progetti ed aumentano gli investimenti, alimentando quello che il gergo liberale chiamiamo “circolo virtuoso” in opposizione al “circolo vizioso“, provocato invece dal pessimismo, a sua volta, fomentato dall’avidità fiscale.

Per conto suo Jean-Philippe Delsol osserva che nel 1397 a Dijon i miserabili costituivano l’83% della Popolazione; nel 1431 e 1433 rispettivamente il 54% e 34% di cui 58% erano mendicanti. Nel frattempo, il progresso della rivoluzione industriale  liberale ha favorito l’emancipazione dallo stato di indigenza un contingente di poveri  ancora maggiore, mentre le condizioni del proletariato sono enormemente migliorate, appunto, grazie a tale sviluppo; per cui, contrariamente alla narrativa marxista, il miglioramento delle condizioni generali di vita, hanno subito un processo di indiscutibile prosperità ed a questo proposito vorrei rimandare alla lettura della seguente mia recensione –

 https://liberalismowhig.com/2019/02/28/sviluppo-prosperita-e-benessere/ – E, proseguendo, Delsol spiega come oggi, gli Americani poveri, hanno accesso alla stessa qualità di alimenti degli stessi miliardari, infatti, solo un secolo fa, era più che comune potersi cibare di carne una volta alla settimana o addirittura una volta al mese; non solo, ma praticamente tutti, oggi hanno accesso ad alimenti che due secoli fa nemmeno i monarchi disponevano. Inoltre, attualmente, tutti possono usufruire delle cure del dentista a costi accessibili, mentre allora nemmeno i più ricchi non godevano di tali cure, la soluzione era l’estrazione dei denti dolenti. E se non bastasse, prodotti e servizi nuovi sono letteralmente esplosi, ovunque, rendendo la vita migliore principalmente ai più poveri. Lo stesso vale ugualmente per sia per la longevità come per l’accesso all’istruzione. 

Pertanto, la critica l’analisi di Piketty è giustificata perché il socialista si limita a focalizzare solo l’aspetto dell’aumento della ricchezza di 1% della Popolazione, riconoscendo che tra il 1990 e 2010 la disparità è di fatto aumentata. Eppure, in compensazione, principalmente in percentuale, la povertà nel mondo si è ridotta; infatti, nel 1990 47% della Popolazione disponeva meno di 1.00 $ al giorno per vivere, mentre vent’anni dopo, le persone che disponevano di 1,25 $ al giorno erano scesi a 22%; ciò significa che 700 milioni di individui erano riusciti a migliorare la propria condizione economica e nell’America Latina, chi disponeva di meno di 4 Dollari al giorno nel 2000, da oltre 40% erano scesi sotto il 30% nel 2010 e ciò significa che il numero dei meno favoriti aveva raggiunto il numero della classe media. Negli Stati Uniti è dimostrato che 2/3 della Popolazione vive meglio di come vivevano i rispettivi genitori quando avevano la loro età. E l’autore conclude con una critica all’eccesso di assistenza che costituisce se non una nuova forma moderna della schiavitù, almeno, di sudditanza; infatti, rende gli individui più dipendent, ad uno stato subalterno ed invece di fomentare il loro sforzo a cercare di migliorare con le proprie potenzialità, stimola l’inerzia, la pigrizia. Delsol aggiunge, che se Piketty domina l’arte al ricorso di dati, egli ha anche un bizzarro modo di farlo; con ciò, egli contribuisce non solo a confondere, ma i suoi ragionamenti sono anche molto questionabili, concludendo che, pur essendo il collega intelligente, alle obiezioni che gli sono state fatte, egli omette di verificarle in modo ragionevole ed in modo se non proprio scaltro, ma certamente opportunista, evita di rivedere i suoi equivoci calcoli perché prigioniero della sua ideologica fede dottrinaria.

L’economista americano Nicholas Eberstadt 

https://liberalismowhig.com/referenze/nicholas-eberstadt/ – censura ugualmente il fatto che l’analisi di Piketty si concentra sull’aumento della disuguaglianza economica e precisamente in rapporto alla rendita personale, senza osservare altri importanti aspetti, come, per esempio, i consumi personali. Infatti, bisogna tener conto il livello di benessere che proporziona la vita moderna ed in  primo luogo il progresso raggiunto in termini di conoscenza e di longevità.  Infatti, nel 1751 l’aspettativa di vita in Svezia raggiungeva in media scarsi 38 anni; ossia, inferiore a quella che si registra oggi nei Paesi più poveri in assoluto. Allora, in Svezia, 1/5 dei neonati non completavano il primo anno di vita ed all’età di 5 anni, su 100 solo 70 sopravvivevano, ma fra coloro avevano resistito fino al quinto anno, solo la metà raggiungeva o superava i 60 anni. Per cui, i diversi indici di sopravvivenza in Svezia, sono aumentati di circa 100 volte e 90% degli Svedesi sopravvive ai 65 anni, mentre attualmente la metà arriva fra gli 82 e 95 anni ed oltre. E ciò che vale per la Svezia, si applica al resto del mondo; infatti, Eberstadt aggiunge che nel 1870 l’Italia era estremamente malsana, con un’aspettativa di vita media sotto i 30 anni e circa 45% dei bambini morivano prima del quinto anno. Negli Stati Uniti, fin dalla Grande Depressioni, la longevità da una media di 61 anni, nel 2013 è salita a 79 anni. In rapporto alle disparità etniche, invece, egli spiega che in passato mai la parità di longevità è stata elevata come attualmente. 

Per cui, a livello mondiale la disparità di aspettativa di vita e di longevità, nel corso del XX secolo si è ridotta di due terzi. E, per ciò che concerne il livello di istruzione, il progresso è molto simile alla longevità. Infatti, negli anni 1950, dopo il conflitto mondiale, a grossomodo, la metà di uomini e donne adulti delle zone di bassa rendita nel mondo, non avevano avuto accesso a nessuna scuola. Nel 2010, nonostante l’esplosione demografica e la rispettiva sproporzionata crescita nelle zone più povere del mondo, tra i giovani di entrambi i sessi di 15 anni ed oltre, solo un settimo non è scolarizzata e nei Paesi in via di sviluppo, solo 1 su 6. Un altro studio svolto in 146 Paesi sull’istruzione, rivela che la durata media della frequentazione nel 1950 è salita da 3 anni, nel 2010 a 8 anni. Un’ulteriore indagine rivela che  la scolarità sia per maschi che per femmine da 15 a 24 anni, in fatto di disparità, la distribuzione in rapporto alla rendita è molto inferiore e di questo passo la differenza si ridurrà ulteriormente per la prossima generazione. Pertanto, da un punto di vista della longevità ed anni di scuola, incontestabilmente l’uguaglianza non è mai stata così elevata.

Un altro prestigioso economista, questa volta spagnolo, Juan Ramón Rallo, autore di numerosi saggi –

https://liberalismowhig.com/referenze/juan-ramon-rallo/  – si unisce al coro per ribattere le ambigue tesi esposte nella copiosa opera di Piketty, puntando il dito sulla fallacia secondo la quale, le persone ricche ed i loro eredi ed ogni successive generazione accumulerebbero sempre più patrimonio economico, ciò che storicamente è falso. Infatti, l’iberico fornisce dati che dimostrano come i ricchi, nel tempo, tendono a ridurre le loro rispettive posizioni. Secondo la lista dei miliardari di Forbes del 1987, trent’anni dopo, in rapporto all’elenco più recente, non consta più nessuno; in parte perché un certo numero è deceduto, ma rimane comunque il fatto che quelli, in un modo o nell’altro, hanno visto esaurirsi le proprie risorse: il giapponese Yoshiaki Tsutsumi era il più ricco al mondo con circa 20 miliardi di $ e l’ultima volta che integrava la selezionata lista è stato nel 2006 quando gli si attribuivano ancora 1.2 miliardi di $, ridotta a circa 678 milioni di $, se consideriamo l’inflazione, ciò che in termini costituisce una riduzione del 96%. Secondo i criteri dei soggettivi calcoli applicati da Piketty, avrebbe dovuto moltiplicare il suo patrimonio per 6. Il secondo più ricco, allora, era Taikichiro Mori con 15 miliardi di $, assumendo la prima posizione nel 1991; deceduto nel 1993, aveva lasciato la sua fortuna a due suoi figli, i quali alla data in cui scrive Rallo – il saggio è stato pubblicato nel 2015 – il valore dei due eredi si è ridotto a 6,3 miliardi di $ che corrispondono a poco più di 3 miliardi di $, contando l’effetto dell’inflazione, dunque, con una riduzione dell’80% della ricchezza. Riduzioni similari si sono registrate per Shigeru Kobayashi e Haruhiko Yoshimoto rispettivamente terzo e quarto della stessa lista, mentre oggi già non integrano l’albo dei più ricchi. Al quinto posto c’era il saudita Salim Ahmed Bin Mahfouz con 6.2 miliardi di $ e nel 2009 alla morte del suo erede il patrimonio si era ridotto a 3,2 miliardi di $, equivalente a 1,7 miliardi attualizzati. La lista con i fratelli svedesi Hans Gad Rausing titolari della TETRAPACK  che di fatto, hanno aumentato il proprio patrimonio, con una crescita di circa 2,7% annuo, ma che nel 2015 si trovavano alla 92ª posizione. E l’autore prosegue con la classifica, dimostrando quanto sia difficile che i più ricchi conservino il capitale accumulato in un regime di economia di mercato e come, di fatto, risulta oltremodo incoerente l’affermazione secondo la quale i ricchi diventano sempre più ricchi perché i poveri diventerebbero sempre più poveri.

Ecco che si ripete la vecchia narrativa di Marx, ugualmente ossessionato come Piketty sulla concentrazione di capitale economico. Rallo aggiunge, parafrasando il detto popolare secondo il quale si inizia “in maniche di camicia e si arriva in maniche di camicia in tre generazioni“… Altrove si direbbe nonno costruttore, padre conservatore e figlio consumatore… E conclude, chiedendosi se Bill Gates Amancio OrtegaLarry EllisonJeff BezosLarry PageSergey Brin e Mark Zuckerberg fra trent’anni saranno ancora presenti nel nuovo elenco di Forbes. Del resto, dal 2015 ci sono già forti cambiamenti, infatti, oggi il N° 1 é Bezos, tallonato da Elon Musk N° 2 della TESLA quando fino a pochi anni fa non era ancora ancora nominato; proprio perché l’economia è oltremodo dinamica e si può diventare ricchi molto in fretta, come in genere si tende a regredire. La mobilità, infatti, riguarda anche le classi inferiori e sono numerosissimi i poveri diventati ricchi, così com’è vero anche l’opposto.

Da parte sua l’economista francese Henri Lepage, autore di un notevole numero di saggi, alcuni tradotti anche in italiano – 

 https://liberalismowhig.com/referenze/henri-lepage/ – è membro della prestigiosa Mont Pelerin Society, fondata dal grande liberale della Scuola Austriaca Ludwig von Mises – che è già stata presieduta da alcuni Premi Nobel, tra i quali lo stesso F.A. von HayekMilton FriedmanGeorge StiglerJames Buchanan, ma anche dai nostri Bruno Leoni ed Antonio Martino. Qui, l’economista francese mette in luce l’importanza che si deve dare al fatto che, nelle nostre democrazie, in moltissimi casi, l’economia viene condizionata non tanto dal mercato, ma dalla politica; infatti, è in questo ambito che si riservano privilegi del tutto coperti dalla legalità, ma destinati a politici, burocrati, corporazioni, organizzazioni di società civili, tali come sindacati, organizzazioni non governamentali, istituti culturale e membri del mondo dell’arte, dello spettacolo, che, volendo o meno, influiscono sovente anche in maniera determinante a favore di entità e personaggi che salgono i gradini della scala sociale, non tanto per la propria competenza o merito, ma semplicemente per le preferenze concesse dal sistema; e questo aspetto importantissimo, in maniera del tutto curiosa, non viene minimamente menzionato da Piketty, come se non si trattasse di fattore altrettanto discriminante che genera ugualmente forti disparità. Non per niente, in molti Paesi che si dicono di regime di mercato, troviamo grandi società, guidate da personaggi ricchissimi, spesso venuti dal niente, ma protetti dal potere, non di rado premiati da esenzioni di tasse, od in deleteri regimi di monopolio od oligopolio, mentre dirigono colossi che, grazie a concessioni, licenze o riserve di mercato, riescono a dominare nei rispettivi Paesi settori interi; perciò, qui siamo dinanzi a vantaggi ottenuti assolutamente estranei a ciò che si concepisce come sistema capitalista spontaneo.

Nicolas Lecaussin – 

 https://liberalismowhig.com/referenze/nicolas-lecaussin/ – nota che al momento di scrivere, secondo un’accurata osservazione della graduatoria di Bloomberg si scopre un’istruttiva composizione sociologica dei più ricchi al mondo: tra i 200 individui più ricchi, costituiti principalmente da imprenditori un patrimonio di circa 6,38 miliardi di $ che si sono fatti da sé. E  fra questi 140 hanno saputo costruire la propria fortuna con gli affari e con lo sviluppo delle proprie attività. Pertanto, contrariamente a quanto dà a intendere l’erede di Marx, che i ricchi accumulerebbero patrimonio speculando, mentre risulta che non solo tra i 50 più ricchi al mondo, 40 sono imprenditori, ma tra i 10 più ricchi, ben 9 sono imprenditori e contrariamente alla fonte citata da Piketty fra gli 80 più ricchi al mondo, solo 5 di loro hanno fatto fortuna nelle attività finanziarie. Infatti, tra il totale di 200 solo 23 si sono arricchiti nelle finanze e solo 10 delle stesse appartengono ai settori energetici o patrimoniali; altri 12 hanno fatto fortuna nei settori mediatici e 4 nelle telecomunicazioni, mentre 34 hanno fatto investimenti nel commercio e nei servizi; per cui si è lontani da ciò che è avvenuto nel secolo XX, quando molti si sono arricchiti nei settori del petrolio o nella mineraria.

Inoltre, Lecaussin informa che secondo un’altra ricerca anche la distribuzione dei 200 più ricchi non è concentrata geograficamente: 67 sono Americani (7 sui 10 più ricchi); di questi 50 sono imprenditori; poi ci sono 9 Francesi di cui 4 imprenditori. Tra i 200 14 sono Tedeschi di cui 8 imprenditori; non figura nessuno del Regno Unito, mentre la Svizzera, paradiso finanziario, ne conta solo 2. Fra gli Americani che facevano parte della lista dell’1% dei più ricchi, nel 1987, nel 2007, solo 24% sono ancora presenti nella stessa classifica e solo 37% tra i 5% più ricchi. Per cui ogni anno la composizione di tale lista cambia e solo 2 su cinque dell’1% più ricchi permangono a distanza di 10 anni.

Altro errore che Piketty commette, attribuendo la concentrazione di ricchezza in un dato Paese, per esempio, gli Stati Uniti, ma non specifica che anche nell’ambito degli stessi, la grande ricchezza cambia di mano e specialmente nel caso americano, passa pure da un settore all’altro, seguendo l’incredibile sviluppo tecnologico che si verifica ultimamente. Un esempio è quello di Gayle Cook e suo marito che hanno avuto l’idea di sviluppare guide per fili, aghi e cateteri, destinati al campo medico; mentre, un altro come Steve Jobs ha saputo sfruttare l’idea dei computer e dei telefoni portatili più moderni, con  soluzioni che hanno reso la vita più facile e più produttiva. Pertanto, è pur vero che le disparità esistono, non è questo che si nega, tuttavia, esse sono la conseguenza per aver saputo innovare per il bene dell’umanità intera, a dimostrazione che non è assolutamente vero che la ricchezza sia il frutto della semplice speculazione. Piketty fa usa del termine “Capitale” con una palese allusione a Marx anche se dichiara di non essere marxista; tuttavia, è socialista, contrario alla libera iniziativa e vorrebbe penalizzare coloro che guadagnano altre cifre, confiscando fino all’80% del prodotto ottenuto al di sopra di un determinato tetto, in tutto il mondo, in una evidente cornice internazionalista; questa non è altro che una ennesima forma di socialismo; egli difende questa idea, ricorrendo a statistiche oltremodo discutibili e che si limitano a contemplare unicamente, all’accumulo di capitale speculativo che all’attenta analisi, è marginale.

Si arriva, quindi, al parere dell’americano Michael Tanner, noto docente in diverse fra le più prestigiose Università, come per esempio la Cambridge University dove si è occupato di filosofia; è membro attivo del noto Cato Institute, dove in particolare segue le politiche di benessere, povertà, salute, sicurezza sociale eccetera; autore di diversi saggi sui rispettivi argomenti –

https://liberalismowhig.com/referenze/michael-d-tanner/  – qui, nel caso specifico del saggio di Piketty, anche lui si esprime criticamente, facendo notare come il mal dissimulato discepolo di Marx  che si ostina a condannare l’ineguaglianza, riducendola al livello di presunto malanno da curare, mentre ignora non solo i lati positivi di tale “attributo”, ma semplicemente omette – chissà di tutto proposito – le particolari condizioni di disparità che fomentano, appunto, il crescente benessere in beneficio non solo dei più ricchi, ma anche della gente più comune e meno fortunata. Per dimostrarlo, Tanner cita fra l’altro, l’esempio dell’eloquente generale progresso in corso, nonostante l’effettiva disuguaglianza – che già esisteva durante il regime collettivista precedente – e  che si sta espandendo anche in Cina, dove in trent’anni di sviluppo economico, orientato verso un relativo modello economico di mercato. Non ci sono dubbi, dunque, che anche in Cina le disparità sono in aumento, e come! Ma perché aumenta il benessere; infatti, prima solo l’élite del partito se la passava meglio, gli altri pativano la fame… Ragione per la quale, non si può tacere il fatto che praticamente 99% di mezzo miliardo di individui che vivevano praticamente nell’indigenza, oggi vivono in un benestare che ai tempi di Mao Zedong, proprio nessuno avrebbe potuto minimamente sognare. E lo posso sostenere personalmente perché, io stesso lo ho constatato in una quarantina di viaggi in giro per la Cina dal 1994: dall’estremo Nord di Harbin, giù fino Guilin, Guangzhou e dintorni, passando per Dalian, Tianjin, Xian, Pechino, Nanjin, Shanghai e dintorni, Hangzhou, Zhangzhou, Wuhan, Changsha, Fuzhou, Xiamen eccetera, e posso confermare che la differenza in rapporto a ciò che il Paese è oggi, difficilmente si possa descrivere in poche frasi; certo, c’è ancora chi gira in bicicletta come allora, ma oggi il più grande mercato mondiale di vetture di lusso è quello cinese… Eppure, la Sinistra più ostinata ed impenitente, insiste ad opporsi ancora alle politiche che rendono accessibile un tenore di vita migliore anche ai lavoratori più comuni.

Poi, è la volta del politologo peruviano Alvaro Vargas Llosa, figlio del Premio Nobel Mario; scrive per diversi periodici sia in spagnolo come in inglese, di inclinazione libertaria, è autore di numerosi saggi, sia su politica, economia, libertà, principalmente nei confronti dei Paesi Latino Americani – 

https://liberalismowhig.com/referenze/alvaro-vargas-llosa/ – Anche lui fa notare che tre decenni fa, la metà della Popolazione mondiale viveva con meno di 1.25 $ al giorno, mentre al momento di scrivere, solo un quinto vive ancora in condizioni analoghe. Infatti alla fine degli ’90 circa 12% della Popolazione in America Latina e nei Caraibi era estremamente povera. Nel frattempo, di fatto, la quantità si era ridotta alla metà e ciò a beneficio della crescita della classe media e, pur essendo l’evoluzione ancora abbastanza bassa, ciò non toglie che, nel nuovo millennio, circa la metà della Popolazione del mondo non vive più in miseria, ma si trova al livello fra i ricchi ed i poveri. In modo più specifico in Cile, Perù e Colombia, grazie agli investimenti privati, raggiungendo da 20 a 25% del PIL, ha ampliato il ventaglio della classe media. Questa trasformazione si nota specialmente in Cile dove la percentuale dei poveri si è ridotta al 14%. Ecco che il capitale investito ha generato valore, fomentando l’occupazione, ha migliorato la rendita di milioni di individui ciò che ha ampliato la classe media. Per cui è evidente che dove una volta c’erano pochi “gatti grassi” ed una massa di poveri, ora si verifica, effettivamente, una provvidenziale mobilità sociale come avviene nei Paesi sviluppati con economia in espansione, nonostante esistano ancora zone di libertà di mercato relativamente limitate.

A questo punto dell’ANTI-PIKETTY, si osserva come purtroppo, il poco dissimulato devoto collettivista francese, gioca sui numeri conveniente manipolati; infatti, alcuni li usa per indurre a conclusioni equivoche a vantaggio delle proprie tesi e che, in realtà, non sono affatto di comune consenso. Non per niente, si riferiscono a “dati” – ed il termine “dato” dovrebbe essere inteso come specificità fornita, in modo imparziale – mentre, al contrario, in molti casi, bisognerebbe riferirsi ad elementi non propriamente “dati”, ma “presi”, dunque, scelti a dito, proprio per ottenere effetti volutamente indotti ed utilmente guidati. Tale pratica risulta particolarmente favorevole e chi vuole addomesticare certe medie e giustificare le proprie affermazioni, presentandole come effettive dimostrazioni ed è proprio  per questo modo di utilizzare precise statistiche che molti critici hanno messo sotto accusa Piketty. L’economista americano Martin Feldstein già consigliere del presidente Ronald Reagan e docente di economia all’Università di Harvard – 

https://liberalismowhig.com/referenze/martin-feldstein/  -, autore di oltre 300 pubblicazioni, considerato uno dei più influenti economisti non solo degli Stati Uniti, ma del mondo, spiega come l’autore specula sui valori degli interessi sul capitale, considerandoli elementi assoluti, senza contemplare le diverse circostanze che, di fatto, li condizionano; infatti, in questi contesti, intervengono, non per ultime, anche le distinte scelte politiche; per cui, le  conclusioni di Piketty non risultano per niente condivisibili e Feldstein mette a nudo la palese soggettività dei suoi ambigui calcoli.

Dinanzi al presuntuoso progetto mondiale di Piketty di tassare fino all’80% al di sopra di un certo tetto di rendita, un altro economista americano Richard Burkhauser docente ed analista presso la Cornell University College of Ecology – 

 https://liberalismowhig.com/referenze/richard-burkhauser/ – le cui ricerche focalizzano l’impatto di politiche pubbliche relativo al comportamento economico in rapporto alle Popolazioni vulnerabili, l’accademico si posiziona su di una linea di pensiero similare e ricorrendo ad un eloquente grafico dimostrativo, riconosce che dal 1979 al 2007 i ricchi sono diventati più ricchi. Tuttavia, ciò è avvenuto pure sia con la classe media, come con la classe operaia e perfino con la categoria dei poveri. Egli raccomanda, inoltre, che invece di andare in cerca di capri espiatori nei confronti di gruppi di rendite oltremodo elevate, ritardando ulteriormente il recupero con aumenti controproduttivi di tasse residuali dei grandi dirigenti, gli attori che di solito condizionano la politica, dovrebbero piuttosto incoraggiare gli investimenti privati e l’innovazione ciò che, allora, rafforza la crescita economica ed aumenta la torta che poi può essere divisa fra tutti.

Al coro, si aggiunge Chris Giles già giornalista alla BBC ed attualmente redattore economico al FINANCIAL TIMES – 

https://www.ft.com/chris-giles – commenta che prima che il prestigioso giornale britannico esponesse dati sbagliati ed omissioni nel suo copioso trattato di Piketty, nessuno aveva già sfidato le sue affermazioni. Ciononostante, la sua proposta di introdurre una tassa internazionale sulle grandi ricchezze, avevano già provocato controversie e critiche generali nell’ambiente degli accademici. Giles osserva che alla revisione del libro già l’ex governatore della Banca d’Inghilterra Lord Mervyn King aveva dichiarato che il difetto principale dell’opera, ovvero i dati meticolosamente riuniti, in realtà, non si sostenevano. Infatti, la verifica da parte del prestigioso giornale inglese, controllando le stesse fonti originali citate, aveva identificato errori grossolani oltre ad inspiegabili adattamenti, oltre ad ulteriori dati privi di riferimenti o perfino di fonti inconsistenti. Egli prosegue, osservando che, una volta revisionati e semplificati i dati, non risultano le disuguaglianze a cui si riferisce, pur riconoscendo un aumento della ricchezza all’apice della piramide. Per cui, il quotidiano britannico, ha scoperto numerosi errori di trascrizione sui dati svedesi e pare che abbia anche sbagliato a copiare dati del 1908. Giles, tuttavia, non nega certe disuguaglianze, ma precisa che la verifica ha rivelato che le tabelle pubblicate nel libro sono inconsistenti.

Da una parte Malin Sahlén della TIMBRO – principale think tank svedese a sostenere l’economia di mercato, insieme a Salim Furth economista, già ricercatore presso la prestigiosa HERITAGE FOUNDATION ed analista di dati del CENTER OF DATA ANALYSIS come pure dell’INSTITUTE FOR ECONOMIC FREEDOM AND OPPORTUNITY – 

 https://www.heritage.org/staff/salim-furth – si posizionano entrambi in difesa delle libertà economiche e dichiarano che i dati svedesi di Piketty sono falsi, qualificandoli addirittura sleali, perché applicati per creare una narrativa. E dopo che il FINANCIAL TIMES li ha criticati, aggiungono come i due hanno paragonati gli stessi nell’ambito di quattro decenni, concludendo che l’economista socialista francese li ha usati equivocamente. Infatti, considerando la sua concentrazione di ricchezza dal 1980 alla data in cui scrivono, risulta che Piketty  ignora i dati del 1983 e 1988 e per mostrare dati favorevoli alla sua tesi, salta a quelli del 1992, quando tutti sanno che quell’anno in Svezia è stato atipico.  Inoltre, commentano che, forse, egli abbia considerato altre fonti, ma in tal caso, dovrebbe essere sua la responsabilità di apportare le rispettive correzioni. Per cui, egli sceglie arbitrariamente dati specifici, tralasciandone altri, in maniera disonesta; ed ecco che, pubblicando le tavole con i dati corretti, i due economisti svedesi, mostrano come la sua curva di disuguaglianza è falsa. Ciò che si dovrebbe mostrare, invece, è che in Svezia la distribuzione della ricchezza è più equa che in tutto il periodo del secolo scorso e che non ci sono evidenze di una peggiorata uguaglianza.

Nella polemica intervengono pure altri economisti americani, PhilIip W. Magness dell’INSTITUTE FOR ENERGY RESEARCH della JOHN LOCKE FOUNDATION autore di più libri – 

https://liberalismowhig.com/referenze/phillip-w-magness/ – che scrive anche per diverse pubblicazioni e Robert P. Murphy che oltre ad aver insegnato in alcune Università, collabora con altre istituzioni come l’INSTITUTE FOR ENERGY RESEARCH, il LUDWIG VON MISES INSTITUTE; ed oltre a collaborare con diverse pubblicazione è autore di numerosi libri, alcuni tradotti anche in più lingue – 

https://liberalismowhig.com/referenze/robert-p-murphy/

 – essi presentano diversi grafici con tabelle, confutando i dati presentati da Piketty. Se non bastasse, criticano il fatto che egli esalta i democratici americani,specialmente la gestione di Obama, mentre pretende demonizzare i repubblicani, al punto di definire i rispettivi presidenti come orchi; inoltre, da una parte, ridimensiona i loro meriti per l’elevazione delle retribuzioni salariali minime e, dall’altra, li accusa per aver ridotto e rispettivamente di aver aumentato la tassazione; non per niente, il socialista, si oppone all’economia di mercato che i repubblicani hanno praticato, elevando i loro avversari democratici a livello di eroi. Lo definiscono letteralmente come “raccoglitore di ciliegie”, che pesca dati pur di poter dare forma alla sua narrativa. E, per concludere, paragonano i suoi grafici composti di elementi in una figura del genere di Frankenstein. Infatti, constatano di non essere gli unici ad aver identificato le incongruenze, pur non avendo paragonato dati di tutte le zone, menzionate.  Non per niente, hanno identificato discrepanze storiche basiche ed abbondanti distorsioni politiche come una metodologia selettiva ambigua. Ed in fine, dinanzi al volume di dati problematici ai quali si riferisce, a loro conclusione, dichiarano che l’empirismo è davvero la parte più debole del libro.

All’analisi dell’opera di Piketty, non potrebbero mancare due noti economisti, uno dei quali fra più citati al mondo Daron Acemoğlu originario della Turchia, nazionalizzato americano insegna presso il prestigioso MIT Massachusetts Institute of Technology, autore di numerosi saggi tradotti in più lingue – di cui 4 anche in italiano  – 

https://liberalismowhig.com/referenze/daron-acemoglu/ – alcuni insieme a James Robinson docente presso la University of Chicago particolarmente interessato allo sviluppo dell’America Latina e dei Paesi sub-sahariani. Ed ecco come non concordano con la visione pessimista sull’economista di mercato da lui presentata, evidentemente, incapace di capire i veri meccanismi del Capitalismo, fermandosi unicamente agli aspetti negativi, fuorviato dalla equivoca ricerca di leggi generali che regolerebbero il Capitalismo; in questo suo sforzo, tenta di ricostruire teorie, ormai obsolete ereditate dal suo maestro Marx e come quello stesso, non poteva immaginare l’evoluzione tecnologica della modernità, anche Piketty si lascia ingannare dall’ideologia e trascurando la grande molteplicità delle forze che condizionano l’economia aperta, si affida all’astratta retorica.  Ed allora, nelle sue analisi, non trovano spazio fattori generati dalle istituzioni e dalla politica che ugualmente influenzano la formazione di disuguaglianze. Ebbene, essi considerano che l’osservazione dei fattori che generano tali differenziazioni, nell’ambito dell’accumulo di capitale, il termine di capitalismo non sia adeguato e si riferiscono a due esempi specifici: l’Uzbekistan, da una parte e la moderna Svizzera dall’altra; entrambe hanno proprietà private, ma ciononostante, essendo le due società del tutto diverse, hanno ben poco in comune. Inoltre, fra le previsioni equivoche di Marx secondo la quale la cosiddetta riserva di un esercito di disoccupati, avrebbe ridotto i salari al livello di sussistenza, rendendo al Capitalismo di migliorare le condizioni dei lavoratori; eppure, già quando sosteneva questa tesi, nella stessa Inghilterra, i salari si trovavano in fase di crescita; e ciò che si vede oggi, nel mondo del lavoro dei Paesi che adottano nemmeno una pura economia di mercato, le condizioni di vita attuali non possono essere paragonate a quelle nemmeno di un secolo fa. 

Anche la profetizzazione che l’accumulo di capitale avrebbe generato una inevitabile concentrazione industriale, non si è avverata; anzi, ciò che vediamo, è l’esatto contrario, ossia, una gigantesca diversificazione di attività in costante cambiamento, dove grandi gruppi perfino spariscono e sulle loro macerie, nascono innumere piccole iniziative, versatili, creative e dinamiche: proprio perché l’economia più è libera e più è dinamica. Un esempio lo offre il paragone fra gli Stati Uniti, dove i monopoli e le disuguaglianze tendevano a ridursi, nel vicino Messico nel regime autoritario di Porfirio Diaz, aumentavano al punto di far scoppiare una rivoluzione. E ciò costituisce appunto, un’ulteriore dimostrazione dei difetti dei poteri centralizzati. I due economisti americani,  a conferma delle loro tesi, proseguono con una serie di utili tabelle comparative. Ciò che, di fatto, si è notato è che con l’eccesso del potere economico di famiglie ricche, sono riuscite a ridurre l’accesso alla politica di altre forze. Infatti, una volta che riescono a monopolizzare la politica, possono condizionare anche le istituzioni a loro proprio beneficio; ed è ciò che è avvenuto nella Repubblica di Venezia, dove ad un certo momento storico i ricchi vivevano di rendita e questo non è affatto tipico del Capitalismo, bensì della politica mercantilista. Nell’economia di mercato l’evoluzione è dinamica. Tanto è vero che mentre la potenza millenaria di Venezia declinava, Paesi che avevano scoperto le nuove rotte dei mercati, grazie anche all’evoluzione della tecnica di navigazione, estendevano la loro penetrazione, sviluppando nuove opportunità di scambio. Acemoğlu e Robinson, quindi, considerano il foco sulla disuguaglianza e sul dibattito politico utile e costruttivo; tuttavia, così come Marx prima e Ricardo poi, anche Piketty, abbia sbagliato strada, concludendo che nell’evoluzione della disuguaglianza è necessario inserire al centro della questione l’evoluzione tecnologica in risposta sia a fattori istituzionali, economici e demografici, poiché l’economia e le opportunità dipenderanno dall’equilibrio politico ed istituzionale.

La diatriba sulle tesi contenute nel libro di Piketty si associa anche l’economista americano Donald J. Boudreaux docente presso la George Mason University e membro del centro di ricerca Mercatus e fondatore della Foundation for Economic Education. Oltre a scrivere per diverse testate, è autore di una dozzina di libri – di cui due tradotti in italiano -, ma anche editore di alcuni saggi con particolare enfasi alla globalizzazione – 

https://liberalismowhig.com/referenze/donald-j-boudreaux/ – Egli, inizialmente, fa notare che nessun principio economico è più importante della realizzazione del benessere, il quale non è semplicemente costituito da denaro o capitale finanziario; al contrario, il benessere è accesso a beni reali, a servizi ed opportunità. Piketty sembra più preoccupato con il portafoglio – degli altri – e non con ciò che la gente può fare con quello che possiede. È un fatto incontestabile che i numerosi e poliedrici miglioramenti dei reali parametri di vita sono, indubbiamente, stati superiori per la gente comune che per i ricchi. Cita come personaggi dello spettacolo nel 1950 potevano permettersi di pagare forniture anche in pieno della notte; mantenere conversazioni intercontinentali telefoniche durante ore; disporre di dimore con aria condizionata eccetera, comodità che per la gente comune negli Stati Uniti, allora, non erano accessibili; tuttavia, al momento in cui scrivono, non sono normali solo per la classe media, ma addirittura per i poveri. Per cui, si scopre che le vere differenze economiche che separano i ricchi dalla classe media e questa dalla classe povera, si stanno accorciando. Un secolo fa solo la classe con rendita superiore poteva circolare in automobile; vestire abiti ben stirati e frequentare ristoranti; oggi, al contrario, la classe media americana non si distingue dalla classe più ricca. Se uno dei più noti miliardari fosse visto camminare per la Quinta strada di Manhattan, non si distinguerebbe dagli altri, sia per gli abiti che per l’aspetto della salute fisica. Eppure, non è ciò che si dovrebbe dedurre, leggendo il libro di Piketty, per cui, se uno deve leggere un libro per scoprire quanto sia grande la disuguaglianza economica, allora, vuol dire che tale disuguaglianza nel decorrere della vita quotidiana, non sia tanto rilevante. 

Del resto, anche negli affari esiste un processo permanente di esiti positivi e di insuccessi; infatti, prima o tardi subentrano concorrenti, come avvengono pure cambiamenti nei gusti e le preferenze dei consumatori possono indurre a crescita od il ridimensionamento di chi produce o fornisce servizi, al punto di poter anche fallire. Ad esempio, solo nel 2013 negli Stati Uniti, sono fallite più di 34.000 società, fenomeno annuale tipico di un anno di economia in espansione. Ma se l’esempio della dinamicità dei fenomeni economici con i suoi saliscendi nella condizione di ricchezza/povertà, non è ancora abbastanza convincente, Boudreaux spiega come nel giro di 18 anni, ossia dal 1992 al 2009 ben 73% degli individui che apparivano nella lista dei 400 più grandi contribuenti di imposte negli Stati Uniti vi rimanevano solo per un anno; per cui, solo una selletta manciata di individui vi figuravano durante 10 o più anni. La ricchezza, dunque, nel corso degli anni, si diluisce sia per le multiple eredità, come per le imposte sugli immobili o per filantropia  [pratica oltremodo diffusa negli Stati Uniti], o per cambiamenti delle stesse condizioni di mercato. Ma per l’autore socialista francese, ossessionato dalla ricchezza di pochi, il Capitalismo sarebbe un sistema di solo profitto, mentre nel mondo reale, si tratta tanto di un di profitto, quanto di perdite. Di fatto, la ricchezza non cresce automaticamente; dev’essere creata e per crescere o per solo essere sostenuta, essa dev’essere gestita con competenza. Piketty se la prende con i grandi dirigenti aziendali che ottengono remunerazioni da capogiro; è vero, ma se le società se lo possono permettere, è perché ottengono i ricavi che le giustificano; se non fosse così, non resisterebbero e se i dividendi ai titolari delle azioni di tali società non prosperebbero, quei dirigenti perderebbero non solo le stratosferiche remunerazioni, ma anche le loro comode poltrone.  Infatti, se Piketty avesse esaminato più attentamente la letteratura empirica sui risultati effettivi, avrebbe potuto dedurre che i buoni guadagni sono strettamente legati alla buona gestione che dipende soprattutto dalla produttività. Boudreaux aggiunge che l’economista Steven Kaplan docente presso l’Università di Chicago recentemente ha osservato che le società dove gli alti dirigenti guadagnavano di più, rendevano più risultati di quelle dove i dirigenti guadagnavano meno… Ma, concludendo, Boudreaux fa notare che, come Marx, anche l’economista socialista francese, risulta accecato dall’incapacità di contemplare principi economici basici, dinanzi la potenza delle attive forze del mercato, libere dalle coercizioni imposte dai governi che pretendono, controllare e regolare le rispettive  attività, generano prosperità per tutti, mentre Piketty o non se ne accorge, o semplicemente lo ignora di proposito…

A questo punto vediamo cosa ha da dire l’economista americano Jeffrey Miron, già presidente del Dipartimento di Economia presso la Boston University ed attualmente docente senior presso la Harvard University in qualità di direttore agli Undergraduate Studies di economia; ed oltre ad essere direttore di studi economici presso il prestigioso Cato Institute ed è autore di diversi saggi – 

https://liberalismowhig.com/referenze/jeffrey-a-miron/ – di inclinazione libertaria, essendo dell’avviso che le società che non riescono a sopravvivere, non dovrebbero essere sostenute da aiuti pubblici, ma dovrebbero essere lasciate al proprio destino…

Nel caso specifico, è del parere che Piketty tralascia il fatto che il governo gioca un altrettanto importante ruolo nella formazione di disuguaglianze; infatti, condiziona distinzioni nelle rendite che la maggior parte delle persone non condividono, principalmente perché tali misure non contemplano le differenze nella capacità produttive; differenze che generano effetti collaterali in politiche che in genere possono non essere benefiche. Infatti, le rispettive politiche, sovente, distorcono le basi di efficienza, ridistribuendo ricchezza in maniera del tutto arbitraria. E tali ingiustizie non riverberano solo nei confronti delle classi media ed alta, ma anche nei confronti degli altri, compromettendo la naturale evoluzione spontanea, quando penalizza, appunto, coloro che aspirano ad uscire dalla classe inferiore e salire i gradini della scala sociale, sfruttando le proprie potenzialità. 

Per cui, se l’economista francese si fosse adeguato a confrontare quali sono le disuguaglianze più indesiderabili, probabilmente, egli avrebbe scritto un altro libro. Trattare tali contesti significa analizzare molti altri aspetti; fra questi, le inadeguatezze di interporre ostacoli al libero scambio, stabilendo restrizioni al libero commercio ed imponendo quote di diversa natura; proteggere dipendenti e determinate industrie, come favorendo distinzioni nell’aumento di retribuzioni e guadagni. Infatti, tutto ciò è pratica sleale nella libera e sana concorrenza; restringendo la libera circolazione delle persone, come costituisce l’imposizione di restrizioni all’immigrazione. E ciò si riflette sulla spontanea ed adeguata rimunerazione sia di impieghi altamente tecnologici come pure nei settori di semplice manodopera meno qualificata. Lo stesso vale per la concessione di licenze e di autorizzazioni in tutti i campi delle attività umane, con frequenza, impedendo agli individui di agire nei campi ai quali più aspirano. 

E Miron, include pure la proibizione di attività come il gioco d’azzardo, la prostituzione, la droga, obbligando la gente ad operare nell’illegalità del mercato nero. A fomentare disuguaglianze, quindi,  contribuisce anche la complessità  dei codici tributari a favore di chi è più furbo, abile o scaltro, a trovare brecce legali con l’aiuto di specialisti, mentre coloro che non hanno i mezzi di pagare qualche buon avvocato o commercialista espediente – pertanto, imprenditori  più piccoli, che iniziano nuove sfide, sono quegli individui sempre più vulnerabili -,  che in questo iniquo confronto, risulteranno ingiustamente perdenti, nonostante non di rado, vantino capacità ed idee creative innovatrici. Non per niente, i governanti possono favorire individui, ditte e perfino settori a danno di altri; è il caso delle sovvenzioni riconosciute, per esempio, a determinati prodotti agricoli, pratica oltremodo diffusa specialmente in Europa, ma anche negli Stati Uniti… E non solo, certi sussidi, spesso ed in maniera perfino perversa, sono estesi anche a settori come l’arte, lo spettacolo, ai musei, e perfino nello sport, attività che interessano solo ad una cerchia di amanti specifici; ecco, tutte forme che contribuiscono a generare disuguaglianze. Così, in molti casi, grandi ricchezze, si sono costituite e sviluppate, proprio grazie alla protezione data a certe preferenze, come pure di brevetti tanto nei settori dell’informatica come nell’industria, specialmente farmaceutica, a danno della formazione e dello sviluppo di nuovi concorrenti. Per cui, per farla corta, Miron conclude che non è sempre facile dedurre se è il Capitalismo nella sua libertà di intraprendenza, o se, invece, sono piuttosto i governanti, intervenendo con incentivi o con restrizioni ed altre normative, di solito, piuttosto arbitrari che, alla fine dei conti, contribuiscono ad alimentare le disuguaglianze ben oltre a quanto non faccia la libera iniziativa in maniera aleatoria e che, in genere, è spontanea e non necessariamente in detrimento dei più adeguati meriti. 

Un altro noto economista americano che si aggiunge alla confutazione delle tesi di Piketty è, dunque, Randoll Holcombe docente presso la Florida State University e membro dell’Independent Institute, come pure del Research Advisory Council presso il James Madison Institute. In più, è ex presidente della Public Choice Society ed è stato consulente del consiglio economico del governatore della Florida Jeb Bush. Autore di numerosi saggi – 

https://liberalismowhig.com/referenze/randall-g-holcombe/ – e, al pari dei suoi colleghi, non perde l’opportunità di disapprovare le argomentazioni che compongono l’opera dell’economista socialista francese di palese fede marxista, come si evince fin dallo stesso titolo del suo libro. Infatti, le sue conclusioni rappresentano male la natura stessa del capitale, sia nel modo in cui viene valutato, come pure nei contenuti, ossia, nella valutazione di come i proprietari di capitale ottengono i rispettivi utili. Ecco che il capitale, per generare un utile positivo, dev’essere applicato nel modo più produttivo possibile. Non a caso, i proprietari di successo, ottengono risultati migliori, mentre altri, meno abili o meno versatili o creativi, negli investimenti, possono non solo non guadagnare ma, nel tempo, possono addirittura subire perdite di buona parte del proprio capitale. E le sfide maggiori si affrontano quando si rischia, investendo nelle attività nuove, magari acquistando impianti per iniziare linee di produzione più efficienti o di prodotti del tutto nuovi eccetera. Per cui, il capitale in sé, non genera utili automaticamente. Il guadagno dipende anche, se non soprattutto, dalla produttività generata dall’attività in cui viene destinato. Anche quando viene applicato in investimenti immobiliari, per esempio, è necessario che tali applicazioni generino un utile o alla rivendita, oppure dell’eventuale affitto o noleggio. Il capitale ha un determinato valore crescente solo se il suo flusso genera rendita in maniera produttiva ai rispettivi proprietari. 

Holcombe spiega come la catena di Wal Mart riesce ad aggiungere valore e fruttare utili ai suoi proprietari, mentre nel caso della catena di Circuit City è avvenuto l’opposto. Così, il capitale cambia valore in funzione dei risultati ottenuti. E se Piketty lamenta la crescita della disuguaglianza dal 1980, tutti coloro che hanno vissuto nel periodo trascorso nel frattempo, possono facilmente constatare l’aumento del livello generale di vita che tutti hanno usufruito e non solo la classe più ricca. Ciò è, appunto, dovuto al fatto che il capitale, in genere, è stato applicato dai rispettivi proprietari in maniera produttiva.  Eppure, tale funzione economica a favore di chi detiene i capitali, non viene contemplata nella analisi del socialista, anzi, il miglioramento generale delle condizioni di vita è del tutto assente in questo suo studio. Non per niente, perfino, persone che ufficialmente possono essere considerate della classe povera, ormai posseggono telefoni cellulari, forni a microonde, TV di ultima generazione e tutta una serie di beni e servizi che in passato erano accessibili solo alla classe più ricca; tuttavia, Piketty, non ne fa alcun accenno, forse, di proposito, limitandosi a censurare solo il progresso ottenuto da alcuni pochi ricchi scelti in seguito alle più diverse circostanze. Egli non considera nemmeno il fatto che, investimenti di rischio maggiore, possono generare utili più elevati; eppure, sono soggetti anche a più rischi, mentre investimenti a basso rischio rendono guadagni più modesti. E, seppur Holcombe non lo dica esplicitamente, lo dico io ed aggiungo  come certi rischi non sono solo soggetti alle condizioni ed ai capricci del mercato, o derivanti dall’egoismo individualista, come vorrebbe il socialista; egoismo che, di fatto, può generare nel tempo e nel luogo, in cui il modello capitalista prospera. Del resto, tali distorsioni a cui fa riferimento Piketty si verificano con altrettanta frequenza per via dell’ambizione e dell’egoismo politico, dove – per dirla con Orwell –, alcuni sono più uguali di altri e le disuguaglianze possono emergere non da circostanze aleatorie, ma per via di iniziative intenzionali, producendo risultati ugualmente negativi ed ancora più ingiusti, anche in conseguenza di scelte politiche assolutamente arbitrarie, imposte da parte dei governi che, queste sì, fomentano disuguaglianze indesiderabili, non tanto per merito, ma per abusive intromissioni arbitrarie politiche, dove non di raro fanno intervenire una legislazione messa a punto con finalità ben precise, compromessa dal manto della corruzione del potere pubblico, come vediamo praticamente in ogni gestione. 

E ciò avviene proprio quando, secondo la proposta di Piketty, si decide di togliere il congruo guadagno ottenuto per competenza e merito, per distribuirlo a chi non ha altro merito se non quello di essere retribuito sovente per la pratica della militanza. Holcombe conclude, quindi, osservando gli straordinari ed inimmaginabili risultati generati dal Capitalismo, grazie al quale negli ultimi due secoli e mezzo, perfino  la classe dei lavoratori dei meno qualificati è stata favorita proprio da chi era riuscito ad accumulare ricchezza e che con le rispettive iniziative ha, favorito l’aumento anche della produzione di beni e servizi, non solo con il proprio capitale patrimoniale, ma altrettanto spesso, soprattutto con il proprio capitale umano, hanno contribuito a ridurre la scarsità, facendo con che buona parte della classe povera, abbia potuto raggiungere la classe media. E potrei aggiungere una domanda al socialista se egli conosce anche un modo per conteggiare il valore del Capitale Umano… In fondo, l’idea di Piketty, di confiscare ai ricchi per destinarlo – presumibilmente – ai poveri, non è affatto nuova, si ispira ad una antica tendenza – anche religiosa – che si origina nell’invidia, non tanto per elevare il benessere di tutti, ma piuttosto per punire e vendicare e così ridurre la ricchezza di pochi.

A confutare le proposizioni del socialista Piketty, si inserisce anche l’economista tedesco Hans Werner Sinn, docente emerito di economia e finanza pubblica presso l’Università di Monaco di Baviera fin dal 1984, già presidente dell’IFOIstituto di Ricerca Economica –, inoltre, come consulente del consiglio del ministero dell’economia tedesco e con diverse partecipazioni presso atenei di diversi Paesi, ha ottenuto pure tutta una serie di riconoscimenti internazionali. Egli è autore di numerosi saggi anche tradotti in inglese – 

https://liberalismowhig.com/referenze/hans-werner-sinn/ – ed anche in questo caso, non fa sconti all’economista, iniziando la sua esposizione sul libro di Piketty che emana una zaffata di Marx sia nel suo linguaggio come nelle sue delibere sulla crescita delle disuguaglianze, secondo la legge della crescita della composizione organica del capitale. Ecco come l’economista tedesco, chiarisce che più importante di tutto della teoria del collega francese è il numero di persone che condividono la rimunerazione e la rendita del generata dal capitale. Se il numero dei percettori di reddito aumenta più velocemente del numero dei proprietari di ricchezza, sembra evidente che il parametro al quale si riferisce, non può di certo, risultare così sfavorevole alla maggioranza. E conclude che ispirandosi al solito Marx anche Piketty si affida alla tentazione di rimasticare quanto già sostenuto dal padre del vecchio collettivismo. Tuttavia, la politica che egli propone con l’idea di compensare le disuguaglianze, con drastici aumenti delle imposte a livelli universale, non fa altro che continuare ad appoggiarsi a quella teoria che non si sostiene nemmeno con quanto egli stesso tenta a sostenere.

E per ultimo arriviamo al capo editore del Cato Journal James A. Dorn docente di economia presso la State University di Towson, ricercatore all’Institute for Human Studies presso la George Mason University, avendo insegnato anche in diversi atenei in Estonia, Germania, Hong Kong, Russia e Svizzera, all’Univerità dell’Europa Centrale a Praga e all’Università Fudan di Shanghai; e dal 1984 al 1990 ha lavorato pure per la Casa Bianca. È autore anche lui di un interessante elenco di saggi, alcuni insieme ad altri autori, fra cui con Premi Nobel per l’economia –

https://liberalismowhig.com/referenze/james-a-dorn/ – Anche questo titolato economista mostra come Piketty ha la pretesa di espropriare gli utili ottenuti dal capitale che a giudizio del socialista sarebbero illegittimi. Dalla lettura del suo copioso studio, si deduce che egli presume che <il capitalismo ed il mercato dovrebbero essere schiavi della democrazia e non il contrario>>; infatti, da ciò non è difficile intendere che, mentre il mercato che altro non è se non la somma delle libere scelte spontanee degli individui che si adeguano in tempo reale, quando la democrazia, al contrario, si aggiorna ed eventualmente si rinnova, solo ad ogni nuova elezione. Pertanto, un presunto interesse generale, dovrebbe prevalere sugli interessi privati che sono reali e concreti, come sono pure dinamici. In questo contesto, Dorn si riferisce anche all’importanza che il Premio Nobel per l’economia Gary Becker, attribuisce al capitale umano che, a sua volta, si sviluppa e si arricchisce attraverso l’apprendimento di nuove cognizioni, l’esperienza da cui la competenza, l’abilità, la perizia eccetera – 

https://liberalismowhig.com/referenze/gary-becker/ – Le elevate imposte elevate sulla rendita a livelli di 50% fino all”80%, ovviamente, non fanno altro che inibire l’iniziativa degli individui, gli investimenti privati anche in rapporto al capitale umano e ciò penalizzerebbe la ricerca e dunque il proprio il progresso all’innovazione. Inoltre, i detentori del Capitale, vedendo che i propri utili vengono confiscati, cercheranno altri rifugi, altri mercati meno avidi. I capitalisti ricchi non devono essere contemplati come nemici dei poveri; capitali liberi e proprietà privata sono i veri motori della mobilità sociale. La proposta di Piketty che deposita più fiducia nell’istituzione del potere politico, rende un disservizio all’economia che prospera grazie agli stimoli del profitto, mentre l’eccessiva fiscalità e gli ostacoli – anche solo burocratici – fomentano il suo declino. Egli menzioni, inoltre come, la mano invisibile alla quale si è riferito quello che, forse, può essere considerato il padre del moderno Capitalismo – Adam Smith – 

https://liberalismowhig.com/referenze/adam-smith/ -, fa progredire le Nazioni grazie al mercato e e lo scambio le rispettiva libertà. Ricorda, inoltre che secondo il coautore della Costituzione americana e quarto presidente degli Stati Uniti James Madison, le persone ed il diritto sulla proprietà privata sono i due principali soggetti che il governo deve proteggere; infatti, nella misura in cui il potere del governo cresce ed i diritti alla proprietà privata si riducono, le libertà individuali diminuiscono. In tal caso,  l’uguaglianza sotto il potere della legge vi si sostituisce attraverso un vago criterio di “giustizia sociale”. Ecco come lo schema di Piketty intende rafforzare la “spoliazione legale” espressione coniata dal suo indimenticabile connazionale Frédéric Bastiat 

 https://liberalismowhig.com/referenze/frederic-bastiat/  un secolo e mezzo fa. Infatti, invece di sventare l’ingiustizia e prevenire i legittimi diritti individuali alla libertà ed alla proprietà privata, la giustizia assume il ruolo giustizia distributiva e ricorre alla forza, al ricatto e perfino alla violenza, per imporre una politica distributiva del benessere in modem tutto o arbitrario. Aggiunge che l’economista socialista non prende nota di ciò che insegna la saggezza dell’economista ungherese Peter Bauer – 

https://liberalismowhig.com/referenze/peter-bauer/ – specializzato in sviluppo economico che avverte che “Il Santo Graal dell’economia egualitaria scambia la promessa della riduzione o l’eliminazione delle differenze di reddito e benessere con una reale disuguaglianza di potere fra governanti e sudditi”. Non si può allo stesso tempo difendere la proprietà privata, togliendo proprietà. Del resto, la stessa storia dell’economia dimostra che le pene sofferte dai poveri possono essere combattute molto meglio con l’aumento delle libertà economiche, piuttosto che con la riduzione dei profitti riconosciuti al Capitale. Ed infatti, Dorn fa notare che basterebbe verificare i risultati ottenuti in Cina, dove, prima delle riforme liberalizzanti volute da Deng Xiao Ping, regnava una miseria generalizzata, mentre ormai oltre mezzo miliardo di individui, nel frattempo, non solo sono usciti dalla stato di secolare indigenza, ma fanno parte di una classe media, avendo raggiunto livelli di vita paragonabili a quelli dell’Occidente e, nel frattempo, molti di loro, hanno le possibilità di evoluire ancora, entrando nel cerchio dei ricchi. E Dorn, a questo proposito aggiunge che basterebbe consultare le analisi di uno specialista, il sociologo americano, docente alla Harvard University Martin King Whyte che si è occupato parecchio dei cambiamenti avvenuti nella Cina post Mao Zedong, riconoscendo che, effettivamente, anche in Cina, le disuguaglianze sono aumentate, ma è anche aumentato il generale benessere di praticamente tutta la Popolazione che nella sua maggioranza dichiara di essere ottimista, essendo convinta che il talento, il lavoro duro e l’istruzione contribuiscono a tale benefica mobilità sociale –

https://scholar.harvard.edu/martinwhyte/files/fair_versus_unfair.pdf – mentre, come lo stesso, attribuisce le ondate di proteste, all’abuso di potere  e ad altra natura di ingiustizie, da mettere sul piatto della bilancia, non tanto del modello economico semi capitalistico, bensì, delle precarietà della giustizia; per questo, la gente considera che il mercato, la creatività siano in giusto veicolo del progresso e non può essere considerato come  un nemico, ma  un prezioso alleato; è, al contrario lo Stato che crea gli ostacoli e Piketty chiaramente non ne parla. Ed infine,  Dorn, conclude che è il principio di non intervento – anche nell’economia che fomenta il vero benessere – ciò che contrasta con l’imposizione di limiti al mercato, ricorrendo allo “stato sociale” a lui tanto caro.

Ma per lasciare da parte per un attimo  l’eccellente lettura che qui ho cercato di riepilogare in modo per alcuni probabilmente anche troppo sommario, forse risulta anche utile aggiungere che un altro importante economista liberale amerIcano George Reisman, autore di una ventina di saggi –

https://liberalismowhig.com/referenze/george-reisman/ – tra i quali uno specifico dedicato, appunto, all’opera di Piketty  il cui titolo di per sé già la dice tutta: PIKETTY’S CAPITAL: WRONG THEORY DESTRUCTIVE PROGRAM (Teoria Erronea, Programma Distruttivo) –

https://www.amazon.de/-/en/George-Reisman-ebook/dp/B00M0D69S2/ref=sr_1_9?dchild=1&keywords=GEORGE+REISMAN&qid=1624543663&sr=8-9   – dunque, un ennesimo prestigioso specialista che si unisce a smontare la narrativa che dovrebbe avere la finalità di resuscitare le vecchie contraddizioni, mentre ancora una volta in oltre trenta particolari argomentazioni vengono ridotte a nude tesi sulla base della solita retorica logorata.

E per concludere, come ho avuto anch’io occasione di osservare in altri miei scritti, Dorn conferma che non è vero ciò che Piketty intende diffondere, ossia, che i ricchi diventano sempre più ricchi a spese dei poveri; infatti, la ricchezza non si limita a valori che possono essere misurati materialmente, o contati in modo fisico, così come si possono misurare le proprietà materiali, valore intrinseco del denaro; insomma le case, i beni, i conti in banca, le risorse naturali in stato naturale. Anche perché non si possono valutare nemmeno le rispettive potenzialità che cambiano nel tempo e nel luogo, a seconda delle aspirazioni degli individui, ed anche grazie alle trasformazione ed alle innovazione che aggiungono valore. Inoltre, non si possono misurare principalmente le potenzialità del capitale umano che in ultima analisi costituisce il più grande patrimonio dell’umanità: e non solo la conoscenza, ma anche la capacità di immaginare, la creatività, il coraggio, la temperanza, insomma, l’applicazione. Infatti, nonni ci si può nemmeno illudere di poter dare la giusta misura, nemmeno dell’intelligenza perché il suo corretto valore sta solo ed esclusivamente nell’utile applicazione produttiva; è il caso della creatività che ad un tratto, quando è meno probabile, l’individuo ha un’ispirazione particolare, e pensando a ciò che mai nessuno ha già pensato, propone una innovazione e crea un nuovo paradigma, magari rivoluzionario; per cui, è oltremodo importante che gli individui possano avere la libertà di pensare e di agire, proporre, provare anche sbagliando, ma potendo correggere ed imparare dai propri errori e, quindi, sviluppare e dare vita a quelle innovazioni che competono ad altri individui di decidere se valga o meno la pena di essere adottate, riconoscendo il rispettivo merito, premiandole con il successo o, bocciandole con il rifiuto o di semplicemente ignorandole. E non si può assolutamente non tenere conto del fatto che è dalla libertà individuale che si sviluppa anche la responsabilità delle persone, mentre qualsiasi politica intervenzionista, rende la gente indifferente e neutralizza addirittura la solidarietà spontanea, lasciando che se ne occupi il potere politico.

Ed in fine, per mettere in contrasto il concetto di “capitalismo buono” e capitalismo “meno buono”, mi sembra opportuno fare riferimento ad un al tuo saggio, THE BIG LIE (La Grande Menzogna), di un esimio liberale americano di origine dell’India Dinesh D’Souza –

https://liberalismowhig.com/referenze/dinesh-dsouza/ – in cui egli con determinazione punta il dito contro le mancine origini politiche e le similarità dell’attuale Socialismo nei confronti del Fascismo e del Nazismo. Infatti, nel caso, D’Souza precisa come, nel 1920, l’economista tedesco Gottfried Feder – che giustamente aderirà al partito nazionalsocialista -, al quale lo stesso Hitler fin dall’inizio della sua carriera politica, si era ispirato, dopo aver assistito ad una sua conferenza intitolata “Come e per quali mezzi il capitalismo dev’essere eliminato”; da allora,  il futuro Fūhrer aveva adottato l’idea del capitalismo produttivo,  praticato dai virtuosi Tedeschi, distinguendolo dal capitalismo finanziario, che Piketty – da buon socialista -, tanto condanna, sarebbe appunto quello tipico degli Ebrei odiati dai nazisti, al punto di costituire uno dei forti pretesti presi in prestito da Hitler dal Feder, sfruttando il preconcetto per giustificare la persecuzione al Popolo del Libro. Dunque, siamo di nuovo ed ancora dinanzi ad una caratteristica posizione del Socialismo del nostro tempo, anche negli Stati Uniti, dove, i membri del Partito Democratico, perfino dei Clinton e di Obama non rinunciano ad ostinarsi, accusando Wall Street di agire unicamente nella speculazione, contro l’interesse della Nazione… 

Ebbene, questa mia recensione di ANTI-PIKETTY, è certamente molto riduttiva, per questo ne raccomando vivamente l’utile lettura…