visto da Tullio Pascoli
19 Mag 2016
STATO PADRONE di Antonio Martino (Recensione)
Dipendenza o Libertà
Il nostro Paese è stato talmente condizionato dalla paternalistica tutela da parte di un presunto provvidenziale potere politico, al punto in cui, purtroppo, si è consolidato il concetto secondo il quale compete proprio al potere pubblico, cioè allo Stato, occuparsi di gran parte dei nostri bisogni e particolarmente dei servizi e non solo, ma anche – se non soprattutto – anche della più competente gestione economica nei confronti della collettività e dell’individuo. Eppure, è noto come nessuno meglio delle nostre consorti o delle nostre mamme gestiscono le nostre economie domestiche, perché sanno fin troppo bene ciò che possiamo e ciò che non dobbiamo spendere o addirittura sprecare.
Ed ecco che in Italia grande parte della Popolazione si è, ormai da troppo tempo, abituata a delegare allo Stato prerogative che non sono necessariamente dello stesso, ma che in ultima analisi ed altrettanto spesso, spettano invece direttamente alle iniziative della società civile, ossia, agli individui stessi che la compongono. Infatti, questo viziato modo di vivere sotto la pretesa amorevole protezione statale – chiamiamola pure così – ha generato una società oltremodo tutelata e non abbastanza indipendente ed in parte addirittura, se non estranea, ma certamente, sotto molti aspetti, piuttosto indifferente.
Come si sa, l’individuo che gode di un’eccessiva assistenza, oltre a diventare molto dipendente, alla fine, tende a delegare addirittura le proprie responsabilità, dando conseguentemente più importanza ai propri presunti diritti, dimenticando allo stesso tempo i propri intrasferibili doveri. In altre parole, l’individuo, rinunciando a tali privilegi ed attribuzioni, tende ad accettare pure, in certa misura, più asservimento, perdendo simultaneamente parte del suo carattere di cittadino attivo, rassegnandosi alla condizione di suddito più passivo.
Così, per la disgrazia della nostra Nazione, ma a scapito anche delle nostre libere e legittime ambizioni, si è formato un vasto consenso a favore del sistema di governo particolarmente paternalista, secondo il quale esso sarebbe più adeguato alla nostra natura, in rapporto a quello che, al contrario, potrebbe stimolare i cittadini ad impegnarsi, arrangiandosi di più, invece di accontentarsi di quello che, in apparenza, proporziona una più comoda solidarietà istituzionalizzata e che pertanto, esige ben meno applicazione da parte del pubblico, dato il vantaggio di essere esonerato da certi vincoli civici, si rassegna pure al fatto che tale modello, comporti l’invadenza del potere politico nelle questioni ed obblighi strettamente individuali, personali e privati.
Del resto, grazie alla tradizione biblica, fin dall’infanzia, siamo stati educati dalla nostra stessa fede religiosa, a depositare la nostra incondizionata fiducia nella divina provvidenza, perché in fondo, noi tutti saremmo le povere vittime della divina condanna ad espiare i nostri peccati originali. Tuttavia, adattandoci a seguire rispettosamente i precetti, frequentando docilmente la funzioni dottrinarie, dedicando in maniera remissiva preghiere all’Onnipotente, le nostre aspirazioni si potranno concretizzare. Invece, se cediamo al nostro istintivo egoismo, zelando troppo per i nostri meri interessi, magari con finalità lucrative, incorriamo nuovamente nel peccato perché il volgare denaro è lo sterco del demonio… Ebbene, forse, a questo proposito, ci potrebbe tornare utile anche la lettura de L’ETICA PROTESTANTE E LO SPIRITO DEL CAPITALISMO di Max Weber, oppure LA SOCIETE DE CONFIANCE di Alain Peyrefitte che ugualmente a tale paradigma si ispira…
Invece, secondo un’altra concezione, quella dei liberali, trattata in modo così convincente nelle sue opere dalla scrittrice russo-americana Ayn Rand, ma principalmente ne LA VIRTÙ DELL’EGOISMO, difendere se stessi ed i propri interessi, lungi dall’essere considerato un vizio e tanto meno un peccato, costituisce un’autentica virtù; infatti, ciò che induce l’individuo ad agire non è la certezza, né la soddisfazione ed ancora meno la sazietà o la felicità che i socialisti vorrebbero produrre con le loro misure coercitive per il bene di tutta la collettività. Al contrario, sono i dubbi, il timore, la fame, l’incertezza, la curiosità – non la militanza, bensì, la dissidenza – ed in un unico termine, le necessità che spingono l’individuo ad esplorare l’ignoto, correndo i rischi delle incerte esperienze. Del resto, credo, che la felicità non si possa realizzare, ad essa si aspira, la si cerca, inseguendo istinti, convinzioni, improvvisando iniziative, elaborando progetti ed accumulando esperienze nuove. Ognuno di noi, mettendo a prova le proprie potenziali capacità, le proprie attitudini, sfrutta le proprie inclinazioni con le quali si pretende realizzare le proprie particolari aspirazioni e – perché no – ambizioni, potendo sbagliare, sì, ma riparare anche ai propri errori dai quali si traggono le migliori lezioni che aiutano a correggere le direzioni equivoche intraprese in tale tentativo.
Non si sostiene nemmeno l’argomento secondo il quale l’egoismo sarebbe incompatibile con la solidarietà. Infatti, la solidarietà è come la fede: entrambe, per essere autentiche, devono provenire dalla nostra più profonda e spontanea intima convinzione; e così come la fede non deve essere confusa con la militanza, nemmeno la solidarietà istituzionalizzata, in realtà, non deve affatto sostituire lo spontaneo e puro sentimento altruista dell’individuo. Non ci sono dubbi che, in genere, anche la solidarietà è un mero frutto dell’egoismo, proprio perché l’individuo è mosso dalla generosità non solo per soddisfare altri, ma soprattutto per realizzare una propria particolare soddisfazione. Infatti, quando ci disponiamo a fare un regalo, un favore, dare un aiuto od una semplice carezza, ci adoperiamo nella convinzione di rendere contento qualcuno, sì, ma indirettamente agiamo anche per appagare il nostro intimo e particolare soddisfacimento.
Ad ogni modo, in conseguenza di questa nostra sfavorevole eredità culturale, si è formata una diffusa incomprensione nei confronti dell’etica liberale da parte del poco informato pubblico: il liberalismo è un concetto che, da noi, è tradizionalmente soggetto ad equivoca interpretazione e subisce una specie di maledizione di consolidati pregiudizi, fortemente sostenuti e nutriti, di proposito, dalla politica che, sulla base di un più che equivoco paternalismo, tanto difende il modello assistenzialista, dal quale finalmente non risulta altro che un insufficiente senso di civismo ed una minore disponibilità a dare contributi diretti ad un più spontanea solidarietà da parte degli individui, che più comodamente possono delegare certi oneri alla astratta entità dello Stato.
Quindi, ne deriva un pubblico di indole apatica che indirettamente alimenta una determinata indifferente pigrizia ed allo stesso tempo deposita in quell’esuberante sistema artificiale, eccessiva fiducia nella falsa capacità del potere pubblico e nell’ambigua efficienza della rispettiva burocrazia del cui marchingegno si serve, per tentare di dare quelle deludenti risposte alle aspirazioni del pubblico in generale ed in maniera particolare degli individuo. Individui, tuttavia, che nella loro più spontanea intimità, se liberati o stimolati, preferirebbero, nel tempo e nel luogo, fare essi stessi le proprie scelte, secondo le loro soggettive e particolari quanto mutevoli predisposizioni. In altre parole, tutti noi aspiriamo alla massima libertà di scelta, potendo benissimo fare a meno che, a nostra insaputa, altri decidano o giudichino su ciò che, a priori, possa risultare meglio per noi singoli individui, senza lasciarci necessariamente vincolare dalle altrettanto soggettive e presunte benevoli decisioni politiche, imposte dall’alto verso il basso; anche perché, i rispettivi errori e costi, sono poi scaricati sulla totalità dei contribuenti. Se invece, siamo noi a sbagliare nelle valutazioni, noi stessi le pagheremo; ma se sbagliano gli altri per noi, risultiamo penalizzati tutti per loro, come di fatto avviene con la politica.
Ma per riferirci alla lettura in oggetto, Antonio Martino è un esimio liberale, autore di numerosi saggi in difesa del Liberalismo; oltre ad avere dato il suo contributo politico anche come Ministro di Stato, ha già coperto la prestigiosa carica di presidente internazionale della Mont Pelery Society, della quale hanno fatto parte diversi Premi Nobel, fra i quali anche Friedrich August von Hayek, e fondata da Ludwig von Mises, importantissima figura della della Scuola Austriaca dell’Economia, dunque, fra i massimi teorici del moderno Liberalismo, così incompreso in Italia. Eppure, Mises è proprio colui che nel lontano 1922, con il suo saggio SOCIALISMO, aveva profeticamente anticipato di 70 anni, le ragioni per cui il collettivismo, fondato in Russia solo pochi anni prima, non avrebbe retto agli effetti della concreta realtà. C’è voluto che il Muro della Vergogna di Berlino cedesse perché i socialisti, finalmente, si convincessero che quell’ideologia costituiva una mera utopia. Non per niente, praticamente tutti partiti comunisti, hanno prontamente cambiato nome, PCI, compreso.
Ebbene, per concludere, Antonio Martino, in questo suo eloquente saggio dal titolo STATO PADRONE – che si può leggere in una sola giornata di ozio – con prefazione di un altrettanto illustre autore liberale, Sergio Ricossa, espone per i lettori italiani, una serie di argomenti sul tema ed anche se l’opera è un po’ datata, essa si presenta ancora oltremodo attuale. Noi Italiani, infatti, avremmo urgente necessità di attualizzare le nostre convinzioni sulle funzioni ed i limiti dell’azione dello Stato e le sue competenze, in totale contrasto a ciò che forma l’insieme delle nostre distinte e legittime prerogative; da questo possiamo dedurre quali siano le nostre attribuzioni di cittadini, ma anche i nostri doveri civici in qualità di membri della collettività per concludere, pure, sulle nostre particolari inderogabili responsabilità individuali.
Questa lettura, pertanto, è una buona iniziazione ad una vastissima letteratura dedicata al libero pensiero ed al ruolo del potere pubblico che deve rimanere circoscritto a pochissime pertinenze o spettanze. Come, del resto, aveva molto opportunamente teorizzato nelle sue ARMONIE ECONOMICHE, già oltre un secolo e mezzo fa, il grande libertario francese Frédéric Bastiat, ugualmente ignoto in Italia, mentre nella culla delle libertà, gli Stati Uniti, egli da molto gode di ampia notorietà ed altrettanto seguito fra tutti coloro che credono nei valori degli individui, piuttosto che nell’insieme della società che, come giustamente osservava anche la gloriosa Margareth Thatcher, non pensa; chi pensa sono gli individui e sono questi che, con le loro iniziative, promuovono i cambiamenti, dunque, il progresso.
Per fortuna, attualmente continua ad aumentare il pubblico che diffida sempre di più dell’efficacia delle pubbliche istituzioni. Al contrario, Bastiat, aveva già intuito allora la superiorità delle attività private in rapporto a quelle pubbliche. Non per niente, difendeva già a quei tempi la privatizzazione delle scuole, della sanità, della sicurezza e perfino della Giustizia. Ed ecco che ai nostri giorni ne abbiamo la conferma come i migliori risultati si ottengono proprio dalle Organizzazioni private che erogano migliore educazione, più adeguati servizi sanitari, grazie pure alla ricerca scientifica privata, parzialmente patrocinata dal mecenatismo finanziato da fondazioni a loro volta sostenute dall’iniziativa privata. Inoltre, oggi, molte società e perfino le famiglie si rivolgono ad organizzazioni private di sicurezza per proteggere e salvaguardare i propri patrimoni, ed in maniera crescente, si ricorre agli arbitrati indipendenti, piuttosto di dover attendere anni o decenni per risolvere contenziosi e vedere riconosciuti i propri diritti dai letargici Tribunali dello Stato.
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