visto da Tullio Pascoli
30 Lug 2014
IL CERVELLO DELLE DONNE di Louann Brizendine (Recensione)
La diversità che sublima i valori dell’indole umana
IL CERVELLO DELLE DONNE è una delle numerose letture che ci insegnano come era assurdo uno dei più contradittori principi del collettivismo: quello dell’eguaglianza, secondo il quale gli umani sarebbero tutti uguali. Se dessimo credito a tale stravagante criterio, dovremmo avere, naturalmente, pure tutti gli stessi diritti – che, in parte, dipendono pure dai meriti – e con ciò i difensori di tale tesi condannerebbero a priori – ma solo nelle apparenze delle loro ingenue buone intenzioni – i distinti meriti dei singoli individui. Va aggiunto che per tali regimi il merito si limita alla militanza e d alla disciplinata obbedienza… La storia, comunque, ci ha opportunamente dimostrato come proprio gli stessi più famosi, ostinati e potenti promotori del collettivismo – Lenin, Stalin e Mao & Co. – si sono puntualmente incaricati a designare una certa preferenza per la più palese disuguaglianza, dove certi individui erano “più uguali degli altri”… Ma, evidentemente, non per genuino ed onesto merito, bensì per la più compiacente accondiscendenza. Ecco che basterebbero due bellissimi capolavori di George Orwell – “1984” e “LA FATTORIA DEGLI ANIMALI” – per qualificare i tanti lati assolutamente grotteschi generati dai modelli politici ed economici inutilmente sperimentati nella vecchia tragica Unione Sovietica e dalla deleteria esperienza seguita in Cina dopo la proletaria Grande Marcia. Dunque, due drammatici inutili tragicomici tentativi con i quali i peggiori satrapi di turno avevano immaginato di poter condizionare la naturale essenza umana, togliendo agli individui ogni prerogativa di essere semplicemente se stessi.Ebbene, non era bastata la vastissima letteratura a mettere definitivamente a nudo cinismo, falsità, delittuosa repressione, abusi, confinamenti, internamenti in ospedali psichiatrici e perfino stermini in massa, praticati consapevolmente durante settant’anni di sfacciate ambiguità ed imposizioni di autocratico conio socialista, per completare il quadro marxista; c’è voluto, finalmente, l’epilogo della demolizione del Muro della Vergogna di Berlino per decretare il fallimento di quegli inadeguati esperimenti. E proprio dopo questo evento si sono aperti gli archivi che svelano al mondo tutta la perversità di quei sistemi e le tante contraddizioni del vano ed insano e fallimentare progetto tentato dalle dittature del proletariato. Eppure, come sappiamo, il paradigma della presunta eguaglianza in sé non si sostenta ed è stato definitivamente sconfessato dalla moderna comprensione dell’indole umana, grazie anche alla scoperta del funzionamento del nostro sistema centrale. Del resto, già la libertaria Ayn Rand ne LA VIRTU’ DELL’EGOISMO ha “didatticamente” spiegato come l’egoismo costituisce un bene antropologico, intrinseco del nostro sistema biologico. In più, oggi – contrariando pure un altro paradigmatico personaggio, allora, adottato dalla dottrina marxista -, la moderna psicanalisi, ridimensiona anche le famose ed altrettanto equivoche interpretazioni della psiche umana che lo stesso Freud, a suo tempo, aveva presentato come una sensazionale scoperta. Forse, a forza di riepilogare l’ambiguità di certe rivoluzionarie rivelazioni, molti hanno capito che è meglio non fidarsene troppo; infatti, proprio un convinto marxista come Albert Camus, dopo aver conosciuto, dal vivo, il mostro partorito dalla Rivoluzione Russa, analogamente al disastro generato dalla Rivoluzione Francese, debitamente demistificata fin da allora – da Edmund Burke, Benjamin Constant, Alexis de Toqueville – e più recentemente François Furet, evento che doveva creare il cosiddetto paradiso del proletariato, infatti, Camus nel suo celebre capolavoro L’UOMO IN RIVOLTA, ammoniva affinché si diffidasse delle rivoluzioni, esortando a mantenersi, invece, in permanente stato di rivolta. Questa famosa opera gli aveva propiziato anche il Premio Nobel per la letteratura, ma al prezzo della perdita dei più intimi amici, ostinati fedeli allo stalinismo, primo fra tutti il compagno Sartre, per condannarlo ipocritamente all’ostracismo, come se fosse un traditore.
Dal canto suo, il fondatore della psicanalisi, dopo aver vagato a tentoni, nelle sue glorificate quanto tenebrose, in parte stravaganti ed equivoche teorie, con le sue innovazioni, aveva riscosso ampio consenso. Eppure, oggi, le stesse controverse tesi di Freud sollevano non poche perplessità: egli pretendeva che l’essere umano, già prima di nascere, disponesse di subcosciente; tuttavia, è lecito immaginare che la coscienza si sviluppi solo nel corso dei primi anni di vita consapevole, ossia, dopo la formazione di una coscienza. E’ naturale chiedersi, pertanto, se si possa disporre di subcosciente prima ancora di sviluppare la coscienza stessa? Certo, non ci sono dubbi che nei nostri geni e nei nostri cromosomi si racchiuda una memoria biologica ereditaria, ma come credere ad una memoria psichica o mentale, prima ancora che il cervello assumi le sue naturali organiche funzioni intellettive? In fondo, il suo stesso collega contemporaneo, Carl Gustav Jung, discordando su certe sue affermazioni, aveva ben presto preso le distanze da quelle illogiche bizzarre tesi. Poi, la stessa psicanalisi, seguendo una spontanea evoluzione, ha saputo rimediare alle sue primitive distorsioni; ora, nell’era della modernità, si confermano chiari limiti delle teorie freudiane. Infatti, numerosi illustri studiosi, fra i quali anche un suo adepto, Erich Fromm, non mancherà di cambiare strada, ma sarà soprattutto lo svizzero Jean Piaget a spiegare più nel dettaglio l’importanza della capacità individuale di adattamento all’ambiente e la conseguente formazione dell’intelligenza; ed a questo concetto si è, poi, associato pure un altro importante interprete della disciplina, il russo Lev Semenovich Vygotskij, il quale con le sue altrettanto solide intuizioni, prontamente mutilate dalla censura sovietica, fino ad essere proibite – mentre i suoi studi circolavano clandestinamente – sosteneva lo sviluppo psichico come un graduale processo condizionato tanto dall’ambiente come dal linguaggio. Quindi, è giusto domandarsi quale ambiente fisico, in assenza di un autentico sistema cerebrale, avrebbe potuto influenzare l’ipotetica psiche del feto, ancora in totale formazione; dunque, senza la conoscenza del verbo, ancora prigioniero nel grembo della madre, ignaro di una più elementare nozione dell’ambiente esterno, quale potrà essere il grado di un eventuale subcosciente? Allora, è davvero possibile sostenere l’esistenza di subconscio in assenza di coscienza? Come potremmo distinguere lo zucchero dal sale prima di averli potuti degustare? Non a caso, il neonato che per sventura nasce sordo e cieco, non sviluppa un intelletto, ed il suo progresso è condannato a non andare molto oltre un semplice stato di amorfo vegetale, rimanendo praticamente tale per tutto il resto della sua vita, poiché non potendo nemmeno acquisire concrete nozioni dell’ambiente sarà, inoltre, indotto a sopravvivere grazie ad il solo ausilio di terzi.
Così, se lo sviluppo mentale è, per natura, una qualità individuale, condizionata dall’esperienza nell’ambiente particolare in cui si forma, dato il fatto che, ogni singolo individuo, vivendo in ambienti distinti, con sue sensibilità uniche, concependo la realtà da un proprio specifico punto di vista, non potendo mai crescere e formare una mente, con convinzioni, inclinazioni, aspirazioni identiche, non svilupperà mai gli stessi parametri e concezioni; ragione per cui, ognuno di noi, per forza, interpreta la realtà in maniera diversa, osservata dalla propria “finestra” secondo le proprie cognizioni accumulate attraverso esercizi realizzati; conseguentemente, avrà attitudini ed abilità uniche che non si ripeteranno mai in nessun altro suo simile.
La piccola indifesa prole che porta tutto alla bocca, – che è anche la parte più sensibile che possiede -, lo fa per imparare a conoscere sapori, testure, strutture, pesi, sapori e forme di ciò che riesce ad afferrare e solo in questo modo acquisisce una minima nozione di ciò che ha attorno a sé; e, di riflesso, nella misura in cui impara, poco alla volta, inizia a conoscere se stesso, mentre il lento processo di identificazione continuerà per tutto il resto della vita. Ed è così che ogni individuo, poi, tenderà a misurare se stesso, paragonandosi a ciò che lo circonda nell’ambiente, proprio per poter capire la natura della propria dimensione nello spazio e riconoscere i suoi limiti, anche della propria capacità, nell’ambito delle libertà che gli sono concesse dalla natura e nella società, da cui deriva anche il suo senso di responsabilità. E dove non c’è libertà anche la responsabilità diminuisce.
Ad una migliore comprensione dell’indole umana, del carattere dell’animale sociale pensante, quale siamo, concorrono anche i fondatori dell’epistemologia evolutiva, gli austriaci Karl Popper ed il Premio Nobel Konrad Lorenz che, con la ricerca comparata del comportamento, osservando i fenomeni di apprendimento in altre specie animali, dà inizio all’etologia con il contributo delle esperienze realizzate da un altro Premio Nobel, il russo Ivan Petrovic Pavlov che, mediante il condizionamento impresso ai suoi cani, ha potuto dimostrare come l’ambiente e le abitudini ripetitive inducono ad un determinato comportamento e queste osservazioni, alla fine, si applicano anche a noi umani.
Orbene, se viviamo vite diverse, in ambienti distinti, maturando esperienze uniche, accumulando cognizioni specifiche, non è così difficile concludere che gli umani non solo non sono mai uguali ma, al contrario, sono tutti uno diverso dall’altro e, conseguentemente, non possono nemmeno tutti aspirare a raggiungere le stesse mete, ognuno con le proprie aspirazioni: c’è chi si realizza per avere, chi per essere e chi per apparire e sembrare. Inoltre, è ancora utile ricordare che esiste anche una significativa differenza fisica e mentale fra gli stessi due generi umani, ma non come inteso alla maniera di Freud che nei confronti dell’uomo maschio, alla donna attribuiva un grado di inferiorità. Invece, la femmina, nel corso dell’evoluzione, ha sviluppato una conformazione del cervello distinta da quella del maschio e c’è una ragione di origine antropologica ben definita. Infatti, mentre l’uomo primitivo si occupava essenzialmente di raccolta e cacciagione, sovente in solitudine – attività quest’ultima che in genere richiede prudenza e discrezione – la femmina viveva nella collettività, occupandosi di variegate funzioni ed in aggiunta, dovendo comunicarsi, scambiando pareri e spesso interagendo con altre donne ed i rispettivi bambini, aveva in queste attività sviluppato anche il linguaggio.
Perciò, partendo dal fatto che il cervello funziona un po’ come un meccanismo le cui distinte parti rispondono a stimoli e comandi diversi, generati tanto da sentimenti come da emozioni dove, per esempio, proprio per una questione di equilibrio, l’emisfero destro è designato al controllo del lato sinistro del nostro organismo e l’emisfero sinistro del cervello al controllo degli esercizi del lato destro. Ed alla comprensione di questo congegno concorre in maniera piuttosto pedagogica anche il neuro-scienziato portoghese Antonio Damasio con uno dei suoi interessantissimi saggi – L’ERRORE DI CARTESIO dove espone, fra l’altro, la mappa della distribuzione delle specifiche aree funzionali cerebrali in cui gioca un ruolo oltremodo importante anche il sentimento – o, per dirla con Pascal -, la ragione del cuore che la ragione non conosce. Infatti, egli descrive, casi di individui che, per cause accidentali, hanno fisicamente perso una parte del lobo frontale, senza peraltro perdere le altre facoltà come il ragionamento, erano rimaste prive di ogni emozione. Dunque, dalle poliedriche sollecitazioni cerebrali corrispondenti alle multiple funzioni generate da una più intensa attività cerebrale, con l’aumento del passaggio incrociato delle trasmissioni degli impulsi operati dai neuroni fra i due emisferi del cervello, la sua stessa conformazione nel tempo si è modificata.
Ed ecco che, non a caso, la forma del cervello femminile si distingue principalmente per la diversa conformazione dell’istmo – il ponte di passaggio – che unisce i due emisferi, essendo nel caso della donna, più largo che nell’uomo; questo, certamente per il fatto che fin dalla più remota antichità, l’evoluzione del cervello della donna ha seguito un processo differente e versatile, dovendo rispondere alle multiple funzioni che era destinata a svolgere, notoriamente, molto più numerose di quelle svolte nelle attività dell’uomo; per cui, l’interazione dei rispettivi neuroni per le variegate azioni da svolgere e per aver dato forma ad ulteriori attività cerebrali con il linguaggio, l’interazione fra i diversi lobi, frontale, parietali, laterali, temporali superiori, inferiori, medi, occipitale in continuo viavai ed andirivieni e viceversa, ha fatto ingrossare il punto di passaggio incrociato che ora constatiamo. La donna, infatti, oltre che ad accudire i figli, doveva gestire gli alimenti, amministrare il pur elementare abbigliamento ed in generale curare le necessità della famiglia, cucinando, confezionando ed allo stesso tempo cooperare con altre donne rimaste alla base ed, eventualmente, ancora curare le ferite del compagno al suo rientro dalla caccia e così via. Da questo processo deve pure derivare una accertata più precoce maturità delle bambine nei confronti dei maschi.
Di tutta questa affascinante formazione evolutiva ci parlano anche brillanti ricercatori italiani di riconosciuta notorietà internazionale, come l’antropologo genetista dell’Università di Stanford Luigi Luca Cavalli Sforza, membro del corpo accademico che ha anche fomentato il noto progetto GENOMA e che tratta di questi fenomeni in numerosi saggi divulgativi, ma principalmente in GENI, POPOLI E LINGUE e dall’altra parte Edoardo Boncinelli, autore di altrettanti saggi ma principalmente ne IL CERVELLO, LA MENTE E L’ANIMA, solo per citare due straordinarie opere alla portata anche di normali mortali lettori dilettanti come il sottoscritto, mentre sono pure autori di trattati scientifici, ben più impegnativi e non destinati al vasto pubblico.
Ma, a parte questi importanti scienziati, il cui prestigio va molto oltre i nostri confini nazionali, e che da decenni dedicano i loro studi ai fenomeni della natura umana, in generale, senza che si siano dedicati esclusivamente alle specifiche diversità che caratterizzano e distinguono il genere maschile da quello femminile, forse può risultare interessante soffermarsi con sommario commentario su di uno dei due saggi che la neuropsichiatra americana dell’Università della California, Louann Brizendine, ha dedicato al tema. Infatti, in contrasto con l’ambiguo paradigma secondo il quale, il cervello maschile è – di fatto – in media, più grande e più pesante di quello femminile, l’autrice con il suo primo saggio IL CERVELLO DELLA DONNA, entra direttamente nel vero merito qualitativo. Leggere le sue osservazione, è stato per me di particolare piacere e non vedo l’ora di poter leggere anche le pagine dedicate al cervello dell’uomo… Per ora, posso solo esprimere la mia soddisfazione di avere seguito una lezione di cui io – unico maschio, cresciuto in mezzo a quattro sorelle più vecchie di me -, avevo già maturato una vaga intuizione. Infatti, senza mai credere alla superiorità del maschio nei confronti della femmina e viceversa, ho sempre inteso che le caratteristiche dei due generi, proprio per essere così diverse, si completavano, l’indole femminile costituendo l’autentico complemento della natura del maschio.
Orbene, questa è un’ulteriore lettura che, ancora una volta, mi ha confermato come la legge che regola l’universo è quella dell’equilibrio, anche se le apparenze troppo spesso ingannano. Infatti, anche la realtà è fatta di due poli: negativo e positivo; quello apparente e quello meno evidente e, dipendendo dalle circostanze, in noi, nell’interpretare i fatti, può prevalere quello negativo o positivo, a seconda del momento, del contesto e delle contingenze; proprio perché, in determinati momenti e luoghi alterni, la nostra fallace comprensione si può improvvisamente capovolgere, con lo stesso mutare de nostro umore e delle emozioni. Quindi, per poter meglio interpretare la realtà è necessario poter ampliare al massimo degli estremi il raggio della nostra visione; ovviamente, non è possibile avere la visione della totalità; ma possiamo, invece estendere la nostra conoscenza ai limiti a noi accessibili, muovendoci e vivendo in libertà, interagendo con il più elevato numero di persone ed ambienti, scambiando impressioni ed esperienze il più possibile. Oggi, la globalizzazione ci ha facilitato lo scambio di beni e nozioni; tuttavia, non basta: noi stessi dobbiamo agire, provando, sbagliando per aggiungere ad ogni fase, ad ogni stadio e tappa una nuova goccia di conoscenza, attinta da questo oceano di informazioni che possiamo formare ed alle quali possiamo accedere, per continuare ad aumentare la nostra conoscenza; insomma, vedere per credere pragmaticamente e non come i teorici, i dogmatici, gli indottrinati e gli impostori vorrebbero religiosamente indurre a farci credere per vedere, sostituendosi addirittura alle nostre prerogative, privandoci delle nostre facoltà di liberamente scegliere ed impedendoci, magari, di pentirci, tornando liberamente sui nostri precedenti passi.
Con questo saggio in cui la Brizendine fornisce dati appurati con i più moderni e sofisticati mezzi e metodi, che ai tempi delle astratte tesi cariche di evanescente retorica di Marx e di Freud, non si potevano conoscere, per il semplice fatto che allora non c’erano gli strumenti tecnici e scientifici in grado di determinare e misurare le specifiche funzioni e le reazioni che si sviluppano nel cervello umano. Attualmente, invece, la ricerca, la sperimentazione empirica e le tecniche di analisi della nostra modernità sono in grado di proporzionare informazioni scientifiche abbastanza solide e concrete, anche se mai definitive. Pertanto, questa opera emana una luce sull’indole umana e sui diversi aspetti che caratterizzano i due generi – femminile e maschile – che i collettivisti non avrebbero mai potuto lontanamente immaginare. Oggi, invece, sappiamo che gli individui agiscono e reagiscono agli stimoli in maniere molto distinte a tal punto che un altro grande pensatore austriaco, il Premio Nobel F. A. von Hayek, osserva come con mezzi e metodi similari è possibile ottenere risultati distinti e addirittura opposti, mentre con mezzi e metodi diversi possiamo ottenere risultati similari.
Quindi, le conclusioni a cui si giunge, è che le interpretazioni tendono ad essere relative e non possono essere prese come regole fisse generali definitive, proprio perché anche le valutazioni che riserviamo nell’osservazione della realtà, non sono mai le stesse. Infatti, ognuno di noi ha le proprie sensibilità, le proprie inclinazioni e percezioni, dunque, le proprie concezioni di vita: non tutti prediligono l’ozio, né si considerano necessariamente danneggiati dalla necessità di lavorare; né si sentono diminuiti dal tipo di attività che svolgono; non tutti pensano che il lavoro sia un sacrificio o peggio ancora una biblica punizione; c’è pure chi – come noi – considera il lavoro un’ autentica opportunità, uno strumento che ci permette di realizzarci, proprio perché ognuno di noi – chi più e chi meno – coltiva le proprie vocazioni a seconda delle ispirazioni che provengono dall’esterno e che possono cambiare ad ogni momento; per cui, non sta agli altri dettare o legiferare sulle particolari preferenze e sulle legittime prerogative degli individui. Noi non siamo attori destinati a recitare sulle loro falsarighe, bensì protagonisti del nostro proprio progetto, per il quale siamo chiamati a rispondere con la nostra particolare responsabilità.
Gli avversari della globalizzazione, timorosi che libero mercato venga a condizionare il pensiero fino a renderlo unico, si sbagliano profondamente, proprio perché il mercato – in primo luogo – è oltremodo volubile e nessuno può prevederne l’evoluzione – ed in secondo luogo – non si impone all’individuo ma, al contrario, è condizionato dalle particolari ed instabili preferenze della miriade degli individui e cerca d’inseguire il più possibile le aspettative del singolo sovrano consumatore. E l’imprenditore di successo cerca appunto di indovinare le sue aspirazioni, proponendo proprio i prodotti ed i servizi che egli altrimenti non trova; e per conquistare le sue preferenze gli deve offrire il massimo di scelta al minimo costo; per poterlo fare, deve innovare ed attualizzarsi in continuazione. Così, il paradigma secondo il quale i grandi conglomerati tendono a dominare il mercato con il monopolio non paga; infatti, nella misura in cui una società s’ingigantisce, in genere, perde la versatilità, né riesce a conservare la capacità di reagire ai cambiamenti di gusto, di umore e di preferenza degli improvvisi capricci o cambiamenti di tendenze dettati dall’universo dei consumatori che costituiscono il mercato.
Inoltre, i critici del modello americano che sono sempre i primi a condannare il consumismo e che sono soliti a descriverlo come predatore, sembrano non capire che è proprio quello che meglio riconosce al consumatore il diritto al pentimento e, pur di cattivarsi la sua fiducia, è quasi sempre pronto a restituire l’integra somma per la restituzione dell’acquisto sovente fatto impulsivamente. E’ mai esistita una pratica similare in un unico modello collettivista? Coloro che difendono l’intervento del potere pubblico mediante regolamentazioni e controlli, credono che sia l’impresa ad imporre il consumo per aumentare il proprio lucro, come osano addirittura accusare che le industrie farmaceutiche elaborano medicinali in funzione di patologie sviluppate ad arte nei loro laboratori, ma sono le solite leggende, naturalmente. A questi critici – spesso troppo condizionati dalla fede nel dogma dell’ eccessivo idealismo ed a corto di senso pragmatico – sarebbe utile la lettura della famosa metafora di Adam Smith secondo la quale non è dalla benevolenza del macellaio che ci si può aspettare una bistecca di qualità al minimo costo, bensì, dall’interesse di poter contare sulla fedeltà del consumatore e dal timore della concorrenza.
Insomma, qualsiasi pretesto vale pur di mettere in ombra l’iniziativa privata. Poi, vorrebbero che le ricerche fossero realizzate, magari, da entità pubbliche che, al contrario, invece di zelare per l’interesse del cliente, seguono criteri burocratici ed interessi meramente politici, dettando norme che favoriscono solo il proprio potere. Dimenticano, fra l’altro, che uno dei principali simboli dell’America, i pantaloni jeans, non sono stati imposti al mercato, ma sono un prodotto popolarissimo che ha fatto successo proprio perché è pratico ed economico. In aggiunta, all’origine tale tessuto era di produzione nostrana: la genesi del termine “jeans” deriva proprio dal nome di provenienza del tessuto di Genova e l’altro termine “Denim” – che identifica il tessuto con cui sono confezionati – proviene dal nome della città della Provenza di Nimes. E, quindi, non sono le industrie che hanno imposto il gusto, bensì, la preferenza del mercato, degli individui che ha ne spontaneamente determinato l’utilità e la convenienza. Il mercato, come ci spiegano gli autori della Scuola Austriaca, fra i quali, Hayek ed il suo amico Ludwig von Mises, ma anche il nostro illustre Bruno Leoni, è un Ordine Spontaneo, dove il consumatore può fare le sue libere scelte; e guai all’imprenditore che commetta l’errore di voler imporre il suo monopolio, perché è destinato, prima o poi, a vedersi superato dai concorrenti disposti ad offrire esattamente ciò che il monopolio si nega ad offrire. Per questo motivo, vediamo come i grandi monopoli, una volta raggiunta una dimensione eccessiva, non riescono a stare dietro al mercato e fatalmente entrano in crisi.
In conclusione, per tornare al nostro saggio de IL CERVELLO DELLE DONNE la considero un’eloquente opera da raccomandare principalmente a chi, forse, alimenta la pretesa di poter sostenere l’equivoca idea dell’eguaglianza, proprio perché l’autrice riesce a dimostrare le profonde diversità che distinguono l’uomo dalla donna, fatto concreto che in ultima analisi, costituisce un’ autentica sublimazione dell’indole umana: essere diversi non è uno svantaggio, ma un vero privilegio; sconveniente, invece, è essere uguali: infatti, se fossimo veramente tutti uguali, con gli stessi gusti, le stesse ambizioni, cosa sarebbe dell’umanità? Intanto, sparirebbe la bellezza, la creatività e la vita diventerebbe una noiosa tappa da consumare senza alcuna emozione. In fine, il saggio, smentisce pure, se non soprattutto, coloro che anacronisticamente si ostinano a credere ad una presunta superiorità del maschio. Di fatto, il maschio per un lungo periodo – ma nemmeno sempre – è stato in grado di dominare le femmine in modo particolare perché, in determinate circostanze, poteva applicare la propria legge che gli permetteva di regolare il potere con la prepotenza, sulla base della forza fisica, mantenendo da donna ai margini nell’isolamento della gabbia designata alle faccende domestiche.
Tuttavia, oggi, finalmente, la donna – pur non avendo ancora pienamente raggiunto la totale emancipazione, soprattutto nei Paesi sottosviluppati – è molto più libera e colta; la sua liberazione nel mondo moderno le permette di competere ormai a parità di merito con gli stessi uomini e sovente ottiene uguale e perfino superiore successo nei diversi campi, l’ultimo, fra i quali, è proprio nell’ambito della dirigenza e più specificamente della politica. Un caso fra i tanti: l’indimenticabile Dama di Ferro – alias Margareth Thatcher – costituisce il più palese ed eloquente esempio. Attualmente, chi si scandalizza dinanzi all’affermazione che molte donne dimostrano di essere, non solo più intuitive, competenti, ma spesso anche più oneste e meno vulnerabili e ben meno inclinate alla corruzione? Nella letteratura, poi, con sempre maggior frequenza, scopriamo una miriade di autrici di straordinario talento, a dimostrazione che nel dominio del linguaggio non si limitano solo alle chiacchiere od ai pettegolezzi. Ecco, quindi, le più tangibili prove che confermano come la donna non ha assolutamente più niente da invidiare all’uomo, a condizione che le siano date le opportunità di mettere alla prova le proprie reali intrinseche potenziali capacità.
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