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L’ECONOMIA DELLA FARFALLA di Paul Ormerod (Recensione)

Da questo saggio apprendiamo ancora una volta che l’economia non può essere concepita come una semplice operazione aritmetica secondo la quale 2 + 2 = 4, né come una formula matematica o un’equazione. Infatti, l’economia non segue parametri logici, sulla base di criteri che possono essere previsti e pianificati, tali come per decenni i modelli socialisti, con i loro famosi piani quinquennali, hanno creduto di poterli ridurre, in cui i risultati disastrosi hanno finalmente fatto storia dalla quale anche i nostri attuali seguaci della distribuzione coercitiva dovrebbero – ma non sembrano –  imparare. Non per niente, le comunità sono composte da individui che pensano ed agiscono a modo loro, potendo cambiare opinione ed inclinazione a qualsiasi momento, senza che possano essere guidati come se fossero parti di un disciplinato gregge.L’economista britannico, Paul Ormerod, ci insegna, dunque, che l’economia così come il mercato sono imprevedibili, un po’ come gli esseri umani stessi che – a casaccio – si adattano alle diverse circostanze che si presentano in modo aleatorio; infatti, sono tutti soggetti alle contingenze che inevitabilmente sono in costante mutazione e non sempre facili da identificare e possono essere interpretate nei modi più diversi, perciò impossibili da prevedere.

Ebbene, se potessimo veramente considerare l’economia come se fosse un’equazione, conoscendo determinate componenti con una ipotetica precisione, sarebbe teoricamente possibile, a priori, arrivare ad un risultato dei valori – pur sempre teorici – e proporzionali. È ciò che per decenni i collettivisti hanno creduto. Invece, come abbiamo visto dal fallimento dei modelli socialisti, le cose si presentano in maniera ben più complessa e qualsiasi previsione vale tanto quanto una mera scommessa nell’oscurità. Sappiamo bene come gli eventi economici sono completamente imprevedibili proprio perché dipendono da troppe varianti altrettanto complesse ed inaccessibili. Pertanto, se osserviamo quanto sia già difficile sostenere le previsioni meteorologiche con assoluta certezza, come potremmo allora pretendere di prevedere eventi che sfuggono al controllo umano, giacché soggetti a tantissime varianti ed incognite che riguardano principalmente – ma non solo – il comportamento, l’indole e perfino gli umori umani. Per Fare un esempio, si sa che un improvviso cambiamento di una tendenza economica può dipendere – per dire – da un semplice dolore di ventre di un’importante personalità ed in una data circostanza, può generare un riverbero di incertezze capaci di riflettersi sull’andamento del mercato, e la congiuntura può conseguentemente subire una radicale svolta di direzione; e lo stesso si può dire del cambiamento generato pure da un inatteso pronunciamento equivoco, per non parlare di uno scandalo coinvolgendo un politico, come ai nostri tempi se ne scoprono quasi ogni giorno; questo senza considerare i cambiamenti delle mode e quindi delle preferenze nei luoghi e nei tempi o qualche evento meteorologico, cambiamento di clima o cataclisma.

Del resto, tutto ciò, già prima di Ormerod, ce lo avevano già spiegato molto bene, in diversi modi, non solo il nostro esimio Bruno Leoni – che i nostri politici farebbero bene a leggere -, ma in maniera altrettanto convincente, gli economisti della Scuola Austriaca; personaggi che tanto hanno influito sulle scelte costruttive adottate dalla Dama di FerroMargareth Thatcher. E fra questi uno dei più importanti pensatori del secolo passato, F.A. von Hayek, Premio Nobel per l’economia, ma anche, se non soprattutto, il suo amico e conterraneo Ludwig von Mises che – con ben 70 anni di anticipo -, con il suo capolavoro SOCIALISMO, quasi profeticamente, aveva annunciato come e per quali motivi l’esperimento collettivista sovietico sarebbe fallito. E La tangibile prova concreta è, finalmente, arrivata con la famosa caduta del Muro delle Vergogna di Berlino.

Ed ecco che per questi straordinari economisti, l’economia e di conseguenza il mercato, costituiscono un Ordine Spontaneo che si comporta un po’ come il linguaggio quando, a scuola, ci viene insegnato a farne uso correttamente in un determinato modo, seguendo regole precise; ma, essendo anche quello in costante mutazione, tanto nei singoli termini come nelle loro rispettive combinazioni, nel tempo e nello spazio, possono cambiare significato perfino da una località all’altra, a distanza di brevissimi periodi, seguendo le mode e le tendenze che nessuno può prevedere e molto meno programmare. Infatti, il linguaggio, così come il mercato, subisce l’influenza ed i capricci dei “consumatori” che scelgono i termini e formano frasi e testi che agli stessi possono sembrare più adeguati, anche se in totale divergenza con i più corretti dettami accademici. Non per caso, ognuno parla come vuole e ricorre anche nel modo più spontaneo alle espressioni, a modo suo: c’è chi rispetta le regole e chi le ignora e c’è chi segue la moda e perfino chi inventa nuove espressioni (neologismi); e c’è chi ne prende in prestito da altre lingue, magari attribuendo sovente, alle stesse, significati che nelle versioni originali non hanno nemmeno. Ed alla fin fine nel linguaggio generale prevale quello che possiamo definire come “denominatore comune”, ovvero, ciò che si consolida nel comune parlare di uso normale, a dispetto di ciò che i linguisti o gli accademici possano preferire o dettare.

D’altra parte, nell’ambito del mercato, chiunque abbia la pretesa di offrire servizi, con un certo margine di successo, tanto quanto le stesse industrie, per evitare rischi, non possono pianificare i loro programmi a lungo termine, ma devono al massimo basarsi su statistiche e poi sperare che non intervengano imprevisti. Tutti noi al mattino ci alziamo pensando di affrontare la nostra giornata in un certo modo, ma non è detto che poi non avvengano imprevisti ai quali ci si deve adeguare. Se un certo programma – o prodotto – non genera i risultati sperati, è assolutamente necessario poter riformulare i propri piani. Ed in economia osserviamo un po’ le stesse esigenze; un evento, anche insignificante può produrre cambiamenti importanti, così come eventi importanti possono generare poca o nessuna alterazione nella congiuntura economica di una collettività, anche perché in una determinata zona, può prevalere una tendenza, mentre in un’altra si afferma o continua un’inclinazione addirittura opposta. Così, analogamente, non è possibile fissare schemi fissi e rigidi, con la presunzione di poter prevedere ciò che ci aspetta anche a corta distanza di tempo e luogo e, chi alimenta l’ illusione di poter prevedere o addirittura anticipare gli incerti eventi, al massimo può cercare di indovinare l’avvenire.

Ed è giustamente il grande Hayek che ce lo spiegava, sostenendo che con mezzi o metodi similari è possibile ottenere risultati distinti e perfino opposti, così come con mezzi o metodi distinti è possibile ottenere risultati similari come pure identici o contrari. Conseguentemente, non è affatto detto che determinate scelte politiche generino necessariamente quelle esatte ripercussioni che si prefiggono; alle volte – e non è raro -, esse producono addirittura risultati opposti a quelli desiderati. Pertanto, secondo tale tesi, quanto meno la politica interviene, cercando di condizionare l’ economia ed il mercato, questi meglio riescono ad assestarsi e creare da soli l’equilibrio fra la richiesta e l’offerta – che si rincorrono -, seguendo liberamente, in maniera spontanea, le inclinazioni e le preferenze del mercato, ossia dei mutevoli capricci dei consumatori. Le società di servizi e le industrie di maggior successo sono sempre quelle che riescono ad adeguarsi alle esigenze ed alle aspirazioni dei propri clienti potenziali con più versatilità e riescono ad interpretare meglio ed in tempi più brevi le aspettative dei loro compratori. Ed il mercato è costituito da una miriade di consumatori, sempre oltremodo ansiosi di poter essere soddisfatti nei propri desideri o di novità che nessuno conosce meglio di loro stessi. Anzi, sovente gli stessi individui non sanno cosa preferire e decidono all’ultimo momento ciò che potrà risultare di loro preferenza; sono loro che sanno molto meglio dei parlamentari e dei ministri e dei tecnici governativi o dei burocrati quali sono o potranno essere o meno, le proprie preferenze; e se non bastasse, in un determinato momento e luogo, possono prediligere ciò che prima avevano rifiutato o che poi possono anche benissimo preferire o di pentirsi, dopo aver fatto tale scelta.

Proprio per questo motivo, le organizzazioni che desiderano conquistare la fiducia e la preferenza del consumatore, offrono al compratore non solo continue innovazioni, ma anche l’alternativa di pentirsi: così, per un acquisto fatto impulsivamente, certi negozi, accettano di ricevere di ritorno il prodotto venduto, restituendo il valore integrale pagato; negli Stati Uniti tale pratica è assolutamente normale. Nei regimi a modello pianificato, al contrario, chi fa le scelte per gli individui sono i politici e le loro appendici burocratiche e le impongono sulla base delle loro soggettive convinzioni o particolari convenienze; lo fanno attraverso normative coercitive, non permettendo all’individuo di fare una scelta o di poi pentirsi, subito dopo. Non accettano l’idea che il consumatore possa non agire e pensare sempre alla stessa maniera; non gli si riconosce il diritto di avere altre priorità da un momento all’altro. Nell’economia pianificata, prima che i politici e la burocrazia si rendano conto dell’improvviso cambiamento di preferenza e di riuscire a cambiare le regole od i programmi di fornitura, venendo incontro alle nuove esigenze del poliedrico pubblico, il libero consumatore o meglio l’utente – come amano definirlo -, nel frattempo, potrebbe aver anche cambiato le proprie preferenze nuovamente. Il mercato, invece, è consapevole di quanto il pubblico sia volubile e, contrariamente agli economisti pianificatori, è sempre attento e pronto a rincorrere i capricci dei consumatori nel tentativo di soddisfarli; e chi ritarda a reagire rischia di pagare a caro prezzo la propria intempestività.

In un regime di mercato libero, non si è legati a rigide norme politicamente stabilite; invece, è come se ci si trovasse in un grande supermercato, dove i clienti si recano, prendendo liberamente ciò che interessa fra i prodotti esposti in quel preciso istante; si recano alla cassa e pagano il conto; in tesi, il giorno seguente, possono anche tornare con lo scontrino ed il prodotto integro, sostituendo parte o tutto ciò che hanno scelto, se per caso si fossero resi conto di aver fatto una scelta inconveniente o di non esserne abbastanza soddisfatti; ed il valore pagato – in genere – viene regolarmente restituito. In altre parole, il Mercato Libero riconosce agli individui la libertà di scelta come pure l’alternativa di pentirsi; è un concetto ampiamente trattato dall’americano Premio Nobel per l’economia Milton Friedman che all’assunto il grande liberale ha dedicato un eloquente saggio dal titolo LIBERI DI SCEGLIERE.

Insomma, gli individui agiscono un po’ come la farfalla che vola e sceglie il proprio fiore in maniera aleatoria, seguendo la più potente legge della natura, senza che le sia imposto quando, come e su quale fiore posare. E questo criterio vale e deve poter essere applicato anche per i servizi, dove tanto il datore quanto il prestatore di lavoro, dovrebbero poter negoziare e contrattare liberamente il proprio reciproco rapporto di cooperazione, senza che debbano necessariamente intervenire terzi con norme restrittive o coercitive che obbligano una delle due parti ad impegni più vincolanti che per l’altra parte, come avviene appunto nei nostri casi in cui, grazie alla prepotenza ed alla forza dei corporativismi sindacali che, sulla base della Legge positiva, si sono appropriati di una buona fetta di libertà altrui, per gestirla unilateralmente, aggiudicandosi la prerogativa di poter imporre obblighi al datore che l’altra parte non ha; e tale arbitrio, spesso, in difesa di vantaggi specifici di una unica parte, e sovente, facendo prevalere l’interesse dell’organizzazione stessa, a prescindere da quello che potrebbe essere il vero concreto interesse immediato del coinvolto diretto, compromettendo con tale interferenza l’equilibrio del consenso che dovrebbe regolare certi rapporti reciproci.

Purtroppo, ciò produce una situazione semplicemente grottesca in cui – tanto per fare un simbolico quanto banale esempio – due individui che si sposano, sottoscrivendo un contratto a vita ma, venendo a mancare le prerogative per continuare quel accordo sottoscritto, possono rendere il rapporto senza effetto, anche se inizialmente doveva durare per tutta la loro vita. Infatti, in Italia è molto più facile che una coppia che si sia promessa eterna convivenza e decide di separarsi che un datore di lavoro, rescinda il suo rapporto di collaborazione con un suo dipendente. Con un minimo di coerenza, non è un controsenso? Poi, ci si meraviglia che i datori di lavoro esitino ad assumere il rischio di dover mantenere un rapporto talmente vincolante anche dopo che possa risultare ormai inadeguato od inconveniente, non potendolo interrompere… Eppure, nel caso di accordi di cooperazione, fra datore e prestatore, invece – che in principio è sempre a scadenza e certamente mai vitalizio –, il datore di lavoro, in moltissimi casi, ha le mani legate ed è indotto a continuare il rapporto, contro la propria volontà o bisogno, mentre l’altra parte ha le mani libere, potendosi approfittare della debolezza dell’altra parte fino all’abuso, mentre sarebbe più legittimo e ragionevole che quell’accordo fosse reciproco ed equanime, essendo siglato in regime di mutuo e libero consenso come lo può essere il matrimonio.

Di fatto, questa lettura di Ormerod costituisce una pedagogica lezione da cui dovremmo apprendere come tanto l’economia, quanto la società, non possono essere concepite come macchine, funzionanti in un certo modo prestabilito – quasi meccanicamente -, bensì, come entità dinamiche e mutevoli; infatti, sono veri organismi viventi, in ambienti soggetti ad imprevisti e, pertanto, in continua evoluzione. Non per niente, così come il mercato anche l’economia si comportano come l’acqua il cui flusso scorre, cercando la via più adeguata, evitando gli ostacoli interposti sul proprio corso, scegliendo sempre quello di minor resistenza. Certo, possiamo edificare dighe e condutture, ma quando la forza della corrente supera la resistenza degli argini, essa ha sempre la meglio e straripa. Pertanto, il concetto che l’economia deve essere regolata dai cosiddetti paletti politicamente stabiliti, prima o tardi si rivelano i propri limiti e addirittura inutili se non proprio deleteri.

Quindi, gli interventi politici faziosi, sulla base delle leggi positive arbitrarie, artificiali e restrittive, coperte e blindate dall’indifferente impertinenza dell’apparato burocratico compiacente, con la pretesa di condizionare e addirittura reprimere il flusso spontaneo delle tendenze economiche, l’impeto della natura – l’insieme delle aspirazioni di tutti gli individui -, alla fine, sfonda ogni argine ed il risultato, in genere, è devastante. Per questo, quanto meno si interviene politicamente, meglio si equilibra da solo il flusso delle tendenze che sono dettate dai diretti interessati che condizionano il mercato in maniera indipendente e spontanea, a prescindere dalle convinzioni di una certa classe politica e burocratica che raramente è pragmatica ma che, al contrario, detta norme sulla base di tesi puramente teoriche.

In conclusione, questa è un’eccellente lettura didattica, opera di un accademico britannico che alle sue analisi economiche non applica solo il semplice calcolo matematico teorico, ma aggiunge pure tutta una serie di considerazioni di ordine molto più complesso, come fattori biologici, fisici, statistici, psicologici, filosofici ecc., indicando con ciò i rischi, gli equivoci e soprattutto i limiti della pretesa di poter prevedere ed anticipare i fenomeni sociali e principalmente degli obiettivi che si intendono raggiungere. Qui egli ridimensiona anche la presunta “sapienza” di certi economisti che, esternando inutilmente le loro sempre puntuali previsioni, tendono piuttosto, ad emulare gli indovini ed a proporre semplici profezie prive di concreta base scientifica, come d’altro canto l’esperienza ci ha in larga misura dimostrato anche, se non soprattutto, nel nostro Paese.