visto da Tullio Pascoli
16 Ott 2011
L’ALTRA CASTA di Stefano Livadiotti (Recensione)
Pubblicato anche su www.politicamagazine.iit
La Repubblica dei Sindacati
Questo straordinario rapporto/indagine è una specie di radiografia che analizza le scandalose anomalie che si sono consolidate dal dopoguerra ai nostri giorni, e denuncia le colpe di un’istituzione che dovrebbe avere per finalità la tutela del benessere dei “lavoratori”. Nelle circa 240 pagine Livadiotti – redattore de L’ESPRESSO, perciò non classificabile di destra – ha sviluppato questa inchiesta che scandaglia le acque torbide ed inquinate di un oceano di ignobili privilegi che destano non solo molto stupore, ma inducono i più tolleranti e remissivi ad una seria meditazione.Possiamo pur chiederci cosa s’intenda con l’espressione di “lavoratori” anche perché il termine è stato utilizzato ambiguamente dalle forze politiche, soprattutto di sinistra, creando un paradigma che è tutt’altro che logico e scontato. Infatti, riservare la qualifica di “lavoratori” ai soli collaboratori non dirigenti di ogni attività produttiva, economica e di servizi è tutt’altro che adeguato, dal momento che darebbe l’idea che dirigenti, liberi professionisti ed a maggior ragione datori di lavoro ed imprenditori non danno il proprio contributo allo sviluppo del Paese con il proprio lavoro.
Secondo la Costituzione l’Italia è una repubblica che si basa sul lavoro… giustissimo; però, dare l’idea o addirittura negare che liberi professionisti, dirigenti, industriali etc. non lavorino – come tutti i mortali Italiani – è certamente un assioma che nega la realtà. Piuttosto, quelli che non lavorano, sono ben altri; sono quei parassiti – molto noti – che vivono sulle spalle di chi di fatto lavora, di chi genera ricchezza e soprattutto di chi paga anche troppe tasse.
Le categorie indipendenti o dipendenti con incarichi di dirigenza e tutti i – meno qualificabili – non stipendiati danno il loro contributo, sì, e nella maggioranza dei casi, individualmente, rispondono alla distribuzione di ricchezza in maggior misura dei singoli lavoratori dipendenti – di cui ovviamente non si può, né si deve negare il valore né il merito. Tuttavia, resta il fatto che senza le volontarie iniziative dei “lavoratori” che operano in proprio e che poi proporzionano altrettante opportunità di lavoro, distribuendo valore aggiunto a molti altri individui, molto spesso, iniziano la propria carriera con il solo proprio limitato capitale umano; con qualche idea creativa. Altrettanto sovente, partono con pochi soldi sul conto e realizzano progetti innovativi o più competitivi; e se riscuotono il successo sperato, con gli utili ottenuti e non accumulano solo patrimonio per se stessi, ma mossi da virtuosa ambizione, decidono di proseguire sulla via dell’intraprendenza; essi, grazie al proprio sentimento di “insoddisfazione”, dinanzi a ciò che il mercato offre, contribuiscono al progresso tecnologico ed economico, proponendo prodotti e servizi a condizioni distinte da quelle già esistenti e dominanti.
In altre parole, con le loro idee ed iniziative, con il loro sforzo intellettuale ed altrettanto spesso con il loro sudore, magari sacrificandosi, si affidano a ciò che credono; assumono rischi che possono dare o non propiziare risultati positivi; infatti, possono pure mancare i loro propositi e perfino compromettere la propria situazione economica anche per tutto il resto della loro vita. E non è difficile sbagliare il lancio di una novità, pur potendo essere questa valida, è pur sempre accompagnate da incognite; infatti, se non viabile economicamente – per esempio – perché i costi non giustificano i cambiamenti, l’ordine spontaneo del mercato, senza fare sconti, non lo perdonerà loro.
Purtroppo, il nostro Paese, ha subito per decenni l’assedio e frequentemente anche l’assalto da parte di individui ed organizzazioni mosse da motivazioni sospette di diversa natura; fra queste l’invidia ed ancora l’ambiguo indottrinamento dell’ideologia fallimentare collettivista. Livadiotti, con questo straordinario rapporto espone in modo chiaro le numerose colpe del corporativismo italiano. Qui i sindacati, sfruttando le debolezze dei nostri governi composti da altrettanti politici incapaci di comprendere i congegni del virtuoso libero mercato, dando credito alle dottrine economiche socializzanti quali quella di Keynes, quando non addirittura alle equivoche teorie di conio marxista. Certo, la moda era quella e per decenni l’intellettualità mancina nostrana ha creduto che lo sviluppo lo deve dirigere e condizionare la politica ed il potere pubblico.
Ma il drammatico risultato lo abbiamo sotto gli occhi: il nostro caro Paese è succube di un sistema, dove non si premia più l’iniziativa; dove il merito passa in secondo piano; dove i diritti – quelli veri e quelli dubbi – hanno sostituito i doveri più concreti. Abbiamo copiato il modello argentino di Peron, dove è la militanza nel corporativismo che conta e non più il merito individuale. Del resto, l’eredità della nostra tradizione religiosa dogmatica, tende a giustificare certe convinzioni: infatti, si dice che siamo stati cacciati dal mitico paradiso terrestre – dove tutto era facile e bello – e condannati a lavorare: lavorare, quindi, sarebbe una punizione. Se non bastasse, il frutto del lavoro, il denaro, è lo sterco del demonio; da qui, il culto dell’invidia per coloro che hanno la colpa di saper accumulare ricchezza patrimoniale. Eppure, anche noi abbiamo avuto competenti personaggi che hanno capito e spiegato come gli umani non sono necessariamente mossi solo da interessi materiali; ce lo insegnano Luigi Einaudi e Luigi Sturzo che a suo tempo avevano esposto, in modo pregevole, come gli individui sono mossi anche da semplici soddisfazioni, attraverso le loro particolari realizzazioni personali, come vedere completata una certa opera od iniziativa.
Così, nella nostra cultura, abbiamo artificialmente costruito paradigmi fossilizzati nello stesso modo di ragionare di gran parte della Popolazione, in cui molti rinunciano a parte della propria individualità; allora, parte delle proprie responsabilità sono delegate ad altri, nell’illusione di potersi liberare allo stesso tempo dei propri doveri. In questo stato di cose la gente tende a rassegnarsi a seguire ciecamente il gregge, confluendo poi, nella filosofia sostenuta da tutta un’organizzazione corporativistica in un sospetto connubio con intellettuali – generalmente su posizioni mancine – e con politicanti populisti, mossi da tempestivi opportunismi clientelari.
Allora, politici, burocrati e presunti gestori di un certo genere di solidarietà istituzionalizzata e coatta, intervengono per governare, amministrare e disciplinare privilegi a favore delle cause dei propri pupilli e – e rispettive appendici – e di passaggio legiferano in propria causa, costituendo una vera casta privilegiata, sempre pronta con la spada di Damocle alzata su chi osa affrontare e contestare dettami meticolosamente ed in modo astuto messi a punto da chi tiene le redini del potere in mano, potendo indurre al silenzio i possibili troppo ardimentosi obiettori, ribelli o contendenti. Naturalmente, la ragione si annida in genere dalla parte di chi ha il mandato, sostenuto anche dal potere della Legge positiva, debitamente allestita.
Ecco che una miriade di sigle ed associazioni si arma in difesa del proprio sterile orticello particolare elevato ad impero ristretto e blindato, senza necessariamente produrre, perché a loro è concesso di invadere, sfruttare e ledere imperi altrui, estorcendo con ricatti, minacce e sentenze, il prodotto coltivato da chi sa meglio fertilizzare il proprio terreno, rendendolo più fecondo con iniziative ed idee costruttive proprie, con sforzo, fatica ma anche con i propri rischi decorrenti dalle tante incertezze di un mercato che non proporziona garanzie, mentre le caste protette dalla legislazione, possono approfittare di una parte del prodotto, indipendentemente dagli utili o perdite che risultano da tali iniziative.
I particolari e le modalità ai quali L’ALTRA CASTA può ricorrere, in maniera indisturbata, in proprio beneficio, sono eloquentemente dettagliati dall’autore al punto di lasciar perplessi anche i più scettici. E ciò che è peggio è che tutti questi marchingegni hanno trasformato il nostro Paese in un orto sempre meno fertile ed ogni volta più sterile, visto che il nostro Paese povero di risorse naturali, deve contare principalmente sul ricco patrimonio del capitale umano che deve essere stimolato. Invece, la maggioranza dei cittadini, grazie anche – ma non solo – al fondamentale concorso del sindacalismo italiano, è stato guidato verso l’inerzia, inibendo le iniziative dei singoli. Così, agli altri “fuori casta” non resta altro che constatare come la ricchezza prodotta non solo non aumenta più, ma lentamente si consuma, allo stesso ritmo in cui la povertà si allarga a macchia d’olio. Ed ora, siamo qui a piangerci addosso, senza meditare sulle ragioni che hanno creato queste situazioni. Eppure, avremmo potuto imparare qualcosa dall’esperienza di un altro Paese che in passato era un esempio di benessere, ma che, trasformato in repubblica dei sindacati – l’Argentina per l’appunto – per iniziativa del campione del populista, Peron, è fatalmente caduta in disgrazia e continua incapace di riprendersi.
Certamente, non ho titoli né credenziali per delegittimare questo modello di democrazia illiberale. Posso, tuttavia, esprimere il mio parere con la mente volta a ciò che si è potuto osservare e concretamente constatare dall’esperienza del sintomatico esempio di un Paese prospero e ricco come pochi: l’Argentina – che io conosco -, dove il livello di benessere ad un certo punto della storia, aveva raggiunto condizioni invidiate perfino dagli stessi Europei, diventando all’epoca dei tempi migliori – ormai lontani -, uno dei Paesi più floridi e fra i principali produttori ed esportatori di alimenti; non lo è più! Perché? Bisognerebbe chiederlo agli eredi peronisti… Eppure, chi visita Buenos Aires potrà ancora constatare come nel bel mezzo della notte, una parte della Popolazione – che evidentemente rimane aggrappata alle mammelle del governo – vive in un ambiente quasi euforico, quando buona parte del resto del Paese, soffre le più drastiche penurie.
Purtroppo, la demagogia cavalcata dal corporativismo sindacale anche di quel Paese, pur appoggiato sulla più ampia – quanto pericolosa – approvazione popolare, con grande abilità estorta con scaltra retorica a cui sanno così bene ricorrere i soliti politicanti, disgraziatamente, ha trasformato una grande Nazione, trascinandola nella miseria. E buona dose di quella popolarità può essere attribuita ad un militare che ha saputo approfittare, in modo malizioso e perverso, la forza ed il potere di un latente opportunismo sindacale che gli ha permesso di trasformarlo da popolaresco caudillo in una celebrata e santificata icona. Ed è da questo iniquo prestigio che è scaturito quello che alla storia si è rivelato sotto il nome di “Giustizianalismo”. Uno stereotipo osannato ancora oggi e che ha permesso di legittimare quel culto della personalità a tal punto che l’aureola della semidivinità ha potuto passare dal cadavere del dittatore direttamente alle chiome delle compagne di Peron. E’ qui, da siffatta deleteria situazione che germina la genesi della tragedia argentina, attratta da un equivoco seducente canto di sirene verso un fatale vicolo cieco dal quale, grazie ad una mentalità minata e corrotta dall’ignara illusione, ancora stenta ad uscire. L’Argentina, infatti, è il tipico esempio di una repubblica dei sindacati, dove niente si muove senza il beneplacito consenso del corporativismo e l’assolutoria benedizione di quel potere occulto, spesso espresso attraverso quelle caratteristiche minacciose manifestazioni di massa.
Ebbene, le intonazioni tanto in voga oggi nel corporativismo nel nostro amato e travagliato Paese non assomigliano al quel seducente suono, per caso? I metodi ed i toni del canto trionfale di un analogo potere danno fiato alle trombe e fanno vibrare i tamburi dell’arrembaggio allo stesso ritmo. Ormai, da noi non si osa più esaltare la parsimonia, i meriti od il lavoro. Anzi, si premia il demerito, l’inerzia e perfino l’ozio che qualcuno non esita definire “creativo”. Eppure, nella nostra insipiente concezione, in qualità di incorreggibili liberali, “creativi” sono le necessità, i dubbi ed i timori e non le certezze, la tranquillità, la sazietà, la pigrizia o l’impunità che insistono a voler istituzionalizzare, garantendo indistintamente a tutti, anche ai pigri, ai “nullafacenti”, tanto per riferirsi ad un altro autore – Pietro Ichino – che dopo aver egli stesso militato nell’organizzazione, con profonda cognizione di causa ed altrettanta indignazione, si arrischia a puntare il dito accusatorio contro le responsabilità dei sindacati e di quel pernicioso corporativismo.
Costoro, ricorrendo alla solita devastante retorica, demagogicamente, pretendono imporre una certa solidarietà per decreto; certo, è tanto facile quanto ingiusto ricorrere alla coercizione per prelevare il frutto del merito altrui e donarlo a chi meriti non ne ha affatto. Oltretutto, non si rendono conto che togliendo ogni ostacolo, rendendo tutto semplice ed accessibile, proporzionando privilegi gratuiti, riducendo il valore dei meriti individuali, si liberano gli individui pure dai doveri e di conseguenza dalle rispettive responsabilità? E’ difficile immaginare a che genere di mondo e società aspirano; credono, forse, di poter realizzare il mitico paradiso terrestre dell’inappetenza al quale nemmeno i miei nipotini non credono più? Il benessere è fomentato non dalla sazietà, bensì dall’ appetito!
Certo, noi non abbiamo un Peron né una delle sue fotogeniche compagne capaci di spianare la strada ad uno dei nostri strilloni di piantone. Ma i personaggi pericolosi li abbiamo anche noi! Oggi, non si possono più seguire programmi in TV senza dover assistere a sgradevoli spettacoli di chi sbraita la secessione; di chi conclama alle armi; di chi preconizza i morti; mentre altri comici esaltati e con scarsa intimità con il pettine urlano a vanvera, istigando la folla di un pubblico confuso, credulone, ignaro, perplesso ed ebbro di discorsi e di slogan traboccanti di logorata retorica dei soliti ciarlatani, in cui attaccano tutto e tutti senza, però, proporre qualcosa di tangibile, concreto e realistico. Infatti, criticare è alla portata di tutti; distruggere, demolire è molto più semplice che costruire e montare, come mostrano i violenti, tanto quelli di ieri e di oggi, quelli di Genova, quelli di Roma e di Milano che si oppongono alla globalizzazione che non è altro che libera circolazione di conoscenza, di beni e di persone. Non è servita nemmeno la fallimentare esperienza socialista; infatti c’è ancora chi fa promesse in un domani migliore ma che non arriverà mai. Del resto, non costa niente e proporziona illusioni che solo il tempo potrà sconfessare. E’, invece, meno popolare raccomandare alla gente che bisogna rimboccarsi di nuovo le maniche, darsi da fare come la legge di madre natura ha sempre insegnato.
Ma, ahimè, la gente solo imparerà, quando l’acqua che già tocca le natiche di molti, raggiungerà quelle degli altri privilegiati che vivono del frutto degli sforzi altrui; abili prestigiatori che hanno saputo invertire i valori; così, oggi, molti dalle insensibili narici, private perfino dell’olfatto sono giunti al punto di non distinguere nemmeno più la fragranza dal fetore; incapaci di riconoscere il bene dal male, il bello dal brutto, l’utile dal nocivo, il merito dall’indegno, il sacro dal profano, il lecito dall’illecito, il giusto dall’equivoco e così si potrebbe continuare quasi all’infinito, perché buona parte dei valori che ci hanno permesso di raggiungere un certo benessere sono stati sconsacrati. L’agiatezza non si genera con i proclami della demagogia, con dottrine, con l’ideologia gonfia di retorica che insegna a credere per vedere. Dobbiamo fare passi indietro e riscoprire la concretezza della pragmatica.
Faceva sorridere quell’indottrinato militante rifondizionista dalle eleganti giacche di Kashmir quando sosteneva che la dignità è un diritto, perché la dignità non si eredita, ma è una conquista che si realizza con il merito del proprio sforzo, da guadagnarsi giorno per giorno, non importa se con sforzo fisico od intellettuale, con le idee e la creatività o con il sudore.
Un grande scrittore messicano, Octavio Paz – Premio Nobel per la letteratura – che dall’illusione marxista è approdato al liberalismo, osserva in un suo bellissimo saggio – EL OGRO FILANTROPICO (Il Mostro Filantropico) – che tanto il merito – ossia la dignità – quanto la libertà sono conquiste dell’individuo; e che per potersi dichiarare liberi è necessario saper accettare la solitudine, la solitudine di essere se stessi; individui indipendenti, che allo stesso tempo è una condanna ma che è pure una benedizione.
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