visto da Tullio Pascoli
19 Ago 2004
L’Arma Letale Della Retorica
Sono passati gli anni e continuano a passare anche i decenni ed una certa folta folla non sembra disposta a rinunciare di arrendersi alla demagogia; essa non cessa di fare il solito ambiguo gioco dei capipopolo di turno e dell’ abile opportunista corporativismo di piantone. Come mai un popolo con la nostra creatività non riesce ad imparare qualcosa di più dalle lezioni dell’ empirica esperienza?
Quando eravamo un popolo di emigranti, quando eravamo visti come gli ultimi della fila delle Nazioni meno privilegiate, guardavamo con invidia quei Paesi che vivevano lo sviluppo industriale con oltre un secolo di anticipo rispetto a noi. Allora, nelle statistiche del sottosviluppo e dell’ analfabetismo primeggiavamo noi. Spinti dal bisogno, dalle necessità ci facevamo strada con l’ entusiasmo per il lavoro che ci caratterizza, sovente svolto fuori casa, con il sacrificio, ma con immaginazione ed amore non solo per l’ operato, ma anche per le opere fatte per bene, perfino nei continenti più lontani.
Poi, a seguito del convoglio Europa, a rimorchio del movimento generale e sull’ ultimo vagone del treno, abbiamo goduto – o sofferto secondo altri – per un buon periodo di una benefica stagione l’ ondata di un certo benessere. Indotti pure dalle circostanze e con una buona dose di merito, siamo diventati ricchi. Sorgevano anche i “nuovi ricchi”; questi non sempre capiti e troppo apprezzati, ma pur meritevoli. Gli esuli emigrati all’ epoca delle vacche magre, ora, ritrovavano la via del ritorno della vecchia Italia; finiva la ciclica saga, la nostalgia per il sole nostrano in terre straniere. Tutto cambiava: non più Paese di emigranti, ora cominciava ad accogliere generazioni di individui provenienti da ogni latitudine e parallelo del globo terrestre.
Gente altrettanto incompresa, come lo erano i nostri esuli di allora; individui visti con non meno diffidenza ed osservati con altrettanto sospetto. Gente con costumi anche esotici che viene per lavorare e progredire da noi, così come i nostri andavano a cercare lavoro altrove, non per rubare, come il luogo comune sentenziava allora – e come altri accusano oggi questi stessi stranieri – ma per mangiare e per migliorare le proprie condizioni di vita. Certo che fra tanti ci sono sempre i buoni ed i meno buoni, ma chi non ricorda che i buoni sono numerosi dimentica che i meno buoni sono pur sempre una minoranza che non dovrebbe far testo.
Eh sì, i parassiti e l’analfabetismo erano ormai soltanto un vago ricordo di altre generazioni; eravamo diventati ricchi grazie all’azione di una categoria di imprenditori che aveva saputo realizzare il miracolo economico di quella che qualcuno, in modo riduttivo, aveva definito la povera Italietta. Una manciata di volonterosi aveva acceso la miccia di ciò che nel gergo liberale è il “circolo virtuoso”.
Più numerose, però, erano le malelingue che disprezzavano questi individui ricchi di immaginazione ed armati di buona volontà, e che con fiducia trasformavano in lucro ciò che manipolavano: per molti non erano altro che degli “arrivati” volgari; termine, forse coniato da chi, all’ alba dell’ estinzione della propria remota stirpe di individui di successo, non aveva saputo far meglio che vivere di rendita di antichi patrimoni e si preparava al proprio tramonto per cedere il posto proprio a questi ultimi arrivati.
Certo, alcuni commettevano le loro “gaffes”, al ristorante, magari usavano il coltello, portandolo allla bocca per mangiare il pesce, od il pollo con le mani; i loro modi non erano da salotto, anzi sovente sembravano grossolani; avevano fatto carriera come operai od impiegati sgobbando duro, sacrificando le belle maniere, senza il tempo per concessioni al galateo. Facoltosi, acquistavano quadri che non avevano molto a che vedere con l’ arte, parlavano l’ italiano colloquiale imparato in casa, a volte bestemmiavano, ma in compensazione i soldi che spendevano se li erano guadagnati onestamente con dedicazione, perseveranza, con il merito di chi ci sa fare. Dai genitori avevano, magari, ereditato solo la tradizione di arrangiarsi; chi voleva qualcosa doveva conquistarla con il merito del proprio sforzo.
Erano ricchi perché la lezione dei genitori aveva dato i giusti risultati. Una parte del danaro l’avevano rimessa in circolazione; l’opportunità aveva beneficiato di tale benessere anche i loro collaboratori. Questi, sì, con il loro lavoro, avevano contributo al successo dei loro padroni, i quali a loro volta li retribuivano in modo adeguato. La cooperazione reciproca delle due parti aveva consolidato la rispettiva stabilità. Come conseguenza, anche questi collaboratori potevano spendere il frutto del proprio sforzo; c’era il denaro per costruire la propria casa, per acquistare nuovi indumenti, per magiare meglio e di più, per far studiare i propri figli nelle migliori scuole; spendevano anche loro e creavano nuove opportunità di occupazione ad altri individui sconosciuti, senza mai averli visti in viso.
E così, poco a poco diventava ricca tutta la Nazione. Non era stata l’opera collettiva pianificata ed organizzata, da una cupola di saggi che si era predisposta a stimolare lo sviluppo; ma la semplice spontanea azione anarchica mossa dall’ambizione di individui creativi, di una generazione di pionieri, anzi di eroi che pensava soprattutto a se stessa, ma che in questo modo faceva girare l’ingranaggio di quello che noi definiamo MERCATO, mentre altri, in modo dispregiativo, lo definiscono precariamente e di forma sommaria “capitalismo”. Inconsapevolmente, una miriade di individui si era data la mano per aiutarsi a vicenda; noi la chiamiamo con un temine nuovo, quasi magico: interazione.
La gente seguiva i propri interessi, le proprie preferenze ed ambizioni, preoccupandosi solo di fare la propria parte, in un sistema dove, alla fine, cooperando, ognuno per se stesso, nel reciproco beneficio, tutti ne traevano vantaggio: tanto chi inventava il lavoro come chi lo eseguiva.
Sull’ altra sponda, il ruolo dei diversi governi, del potere politico, era piuttosto modesto e la miglior cosa che potevano fare era quella di starsene ad assistere. Politici e burocrati perciò seguivano questo processo evolutivo con la modesta partecipazione più da spettatori che altro. Ogni tanto entravano in scena per disturbare, per andare a spillare loro una parte della ricchezza ottenuta. Quella casta è brava a sfruttare le miniere scoperte dagli altri.
Ma ahimè imparava ad approfittarsi dell’operato altrui con insaziabile appetito sempre crescente, penalizzando gli autentici autori di tale benessere; erano proprio i migliori che pagavano gli oneri più pesanti: più generavano ricchezza e più glie ne estorcevano; la scusa era che bisognava distribuirla a chi non ne aveva! Bravi, anzi, bravissimi a stimolare l’inerzia. Poi, privatamente si avvicinavano a loro, adulandoli e li perseguivano anche per chiedere un po’ di “contributi” in occasione dei sempre più frequenti plebisciti elettorali. Per alcuni era una vera festa, da rinnovare periodicamente e la disponibilità facile li rendeva molto spendaccioni.
Nasceva l’ euforia demagogica di una certa classe politica ed il pubblico spreco si generalizzava. Il potere politico si agganciava all’allegra ed interminabile baldanza del corporativismo sindacale, adottandone anche l’intrepido linguaggio, più da barricate che da ufficio, accompagnato sovente da sarcasmo e carico di rancore: il seme velenoso stava germogliando e da esso maturerebbe il frutto della “cultura dell’ invidia”, eredità di una religione interpretata male. Ecco nascere l’odio di classe.
Altrove questi imprenditori susciterebbero ammirazione, se non altro per il meccanismo che hanno saputo mettere in moto, avendo prodotto il vero progresso. Invece, le loro azioni, agli occhi di chi si auto qualificava “progressista” divenivano pretesto di sfacciata discriminazione alla mercé di mere giustificazioni politiche. La cecità di una categoria di individui prepotenti, presuntuosi ed invadenti, impediva di illuminare le loro menti ermetiche, incapaci d’intendere che certi fenomeni economici, responsabili della ricchezza delle Nazioni vicine, dipendeva dall’individuale spontanea libertà di scelte.
Nascevano i primi calendari degli scioperi: un primato in assoluto, ineguagliabile che nessun’ altra Nazione poteva contendere all’Italia. Lo sciopero diventava un paradigma sacro, intoccabile, quasi una religione con i suoi prelati, con i suoi parametri ed i suoi tabù. Eppure il modello di libertà aveva condotto il nostro Paese, fino allora sopravvissuto di un’agricoltura obsoleta, verso un benessere tale da trasformare la vecchia Italia provinciale in una Nazione quasi moderna. I meriti degli autori di tale opera, tuttavia, da questo momento in poi venivano retribuiti con strana, ingiusta quanto ambigua ingratitudine. Non solo venivano taciuti i loro virtuosi meriti, ma li accusavano di sfruttamento, quando non passavano addirittura per ladri! Coloro che avevano creato isole di benessere in un Paese in grave ritardo in rapporto al resto dell’ Europa, ora erano visti come nemici pubblici e quel clima di pacifica collaborazione rimarrà un ricordo; al suo posto si imporrà il confronto permanente, sempre più esplicito ed aperto, con il palese avvallo della classe politica più retrograda, ma dominante.
I tempi erano definitivamente cambiati; certi paradigmi cambiavano valore ed altri ne venivano adottati. Non era più il lavoro, il merito, il risultato, il successo che rendevano gli Italiani degni, ma il suo diretto contrario: SCIOPERO, contestazione, militanza, paralizzazioni, agitazione con tanto di comparse e sventolio di drappi rossi con gli slogan della dottrina stampati in serie, in una disciplina quasi militare, in nome di un’ equivoca solidarietà artificiale. Simultaneamente, tutta una serie di DIRITTI sanciti da un’ altrettanta Sacra Legge, che si diceva “uguale per tutti” ma che di fatto discriminava e screditava gli artefici, i protagonisti e gli attori attivi dello spontaneo miracolo. Infatti, ad alcuni si riconoscevano dei diritti, mentre agli altri venivano negati con la forza e la violenza. Chi amava il lavoro doveva obbedire a chi sosteneva il non lavoro; questi ultimi potevano imporre lo sciopero con la coercizione anche ai primi, ai quali veniva negata la voce ed ogni diritto di opinione.
Era il trionfo di un famigerato CORPORATIVISMO. Una minoranza, una certa categoria, aveva il diritto di paralizzare ogni genere di attività, producendo danni e disagi al resto della Nazione. Mentre scioperare era ed è legittimo, rifiutarsi di scioperare non solo non era più un diritto, ma era visto e denunciato al pubblico quasi come se fosse un tradimento, un genere di delitto. I valori si erano invertiti. Il transito dei mezzi pubblici e delle pubbliche vie veniva sommariamente impedito, i buoni dovevano tollerare i manifestanti i quali indisturbati potevano calpestare il legittimo diritto dei non più liberi passanti. Così, ognuno – volente o nolente – doveva solidarizzarsi e se non lo avesse fatto, sarebbe stato peggio per lui o lei; ci avrebbero pensato i soliti “fondamentalisti” della situazione che in certe occasioni sono molto puntuali; sono i soliti, che marciano e gridano in coro, quelli del nuovo modello, dell’ordine, della militanza e dello sciopero organizzato, pianificato e rispettato a punire i disobbedienti, gli indisciplinati, ricorrendo magari a qualche tipica azione dei famosi scioperi selvaggi.
Tutto con la tacita protezione della Legge fatta su misura. Bruno Leoni, nel suo saggio LA LIBERTA’ E LA LEGGE, autore più noto all’ estero che nel suo proprio Paese, descrive bene a cosa conduce tutto questo genere di equivoco. Purtroppo, dopo decenni di lavaggio di cervello nelle scuole, i principi che avevano prodotto il Risorgimento venivano seppelliti ed una nuova tendenza sostituiva la guida dell’ insegnamento. La gioventù era indottrinata nell’esaltazione della Rivoluzione Francese; nelle menti degli studenti si fissavano nuove figure storiche, nuove verità ambigue prese in prestito dall’umano Rousseau dell’ l’uguaglianza, del mitico buon selvaggio, dell’ interesse generale, come se gli individui non esistessero.
Insieme arrivavano Hobbes del Leviatano, Comte e la sua nuova religione positiva; Marx del Capitale – uno storiografo che non capiva l’economia – e che in modo sommario definiva gli autori del benessere come dei meri speculatori, dei “capitalisti”. I nomi autoctoni che hanno fatto la nostra storia, da Foscolo a Cavour, da Mazzini a Cattaneo passavano in secondo piano. Era il turno di Hegel dall’oscuro e misterioso linguaggio ermetico; questo offre una straordinaria opportunità ai credenti: ora potevano trasformare in logica qualsiasi paradosso, le idee si materializzavano e le teorie sostituivano la realtà; bastava CREDERE PER VEDERE. Ma ecco anche quei francesi ai quali i totalitarismi di ogni parte ed epoca potranno sempre ed eternamente ispirarsi: Saint-Simon, Prouhon e Sorel che tanto piaceva all’irrequieto socialista Mussolini. Già dalla fine della tragica parentesi fascista, per decenni non si parlerà altro che di un nuovo grande mito sacro: quello della Resistenza!
In compensazione Patria si comincia a scrivere in minuscolo, ma non si osa pronunciarla, come se si trattasse di blasfemia. La vera blasfemia, intanto, non scandalizza più nessuno, anzi il linguaggio licenzioso viene trasmesso in catena nazionale dall’ organo ufficiale, l’ultimo mostro sacro inventato dal sistema, la RAI, che fra l’altro per questo mediocre servizio si fa anche profumatamente pagare.
Lo sbocco naturale di tutta questa inversione di valori è la diminuzione dell’ entusiasmo per la vita di tutto il popolo italiano. E’ stato contaminato da una specie di anemia che con il tempo assume il carattere di una vera e propria sindrome: la sindrome del pessimismo che spiana la strada al disanimo, conducendo la gente al labirinto del nichilismo: un mondo senza speranza e senza avvenire.
Purtroppo, anche i più onesti e sinceri degli Italiani, ad un certo momento non sanno resistere al deleterio richiamo delle sirene. Oggi, sono confusi, perplessi e non capiscono più dove sia da ricercare quella via della virtù, quell’atmosfera che aveva acceso la fiamma dell’entusiasmo per la vita, per il lavoro attraverso il quale gli individui si possono realizzare, misurando se stessi e le proprie capacità per trovare, in fine, la propria dimensione nello spazio di questo immenso e meraviglioso universo. Eppure, la virtù è sempre lì al suo posto; nella via di mezzo, nella moderazione, nell’ equilibrio fra gli estremi, nella ragionevolezza che i filosofi di tante generazioni si sono sforzati ad identificare.
Ed allora, perfino un moderno filosofo “68ttino” come Bernard Henry Lévy, ha avuto il coraggio di ritrattarsi e ce lo confessa apertamente nel suo saggio LE AVVENTURE DELLA LIBERTA’. Ma non è l’unico pentito a recitare un sincero “mea culpa”, molti altri intellettuali che avevano conosciuto da vicino quell’ incubo che era il comunismo: Raymond Aron, Albert Camus, François Furet, George Orwell, Karl Popper, Ignazio Silone, Octavio Paz, Mario Vargas Llosa e tanti altri, che in gioventù avevano partecipato alle loro prime battaglie politiche, nella militanza di sinistra, alla fine hanno capito e confessato quelle idee assurde e false, sconfessandole.
Oggi quale arido e desolante paesaggio abbiamo davanti agli occhi? Una Nazione drammaticamente e pericolosamente invecchiata, che dipende da forze di lavoro esotiche che non sempre vengono per rimanere, ma vengono per soddisfare i propri bisogni più immediati e per imparare; non c’è niente di male in questo, anzi; anche se poi si portano con sé l’ esperienza per insegnarla ai loro conterranei. La colpa non è loro, è tutta nostra se noi caliamo di numero e di contribuenti, mettendo a grave rischio la base che dovrebbe incaricarsi di sostenere i pensionati di domani. Che colpe hanno questi stranieri venuti da lontano se gli Italiani non vogliono più sporcarsi le dita? Per caso, molti non sono grati che qualcuno ancora è disposto a fare quei lavori che i nostri signori in cravatta rifiutano?
Come siamo ormai distanti dai giorni in cui non eravamo altro che un popolo di miserabili, sì, ma che percorreva le vie con il sorriso sulle labbra e con l’espressione di luce, di ottimismo degli occhi. Gli altri stranieri, quelli ricchi più di noi, ammirati lo notavano e ci invidiavano. Oggi, invece, siamo un popolo di pessimisti che non ha nemmeno più lo stimolo di dare continuità alla propria ascendenza. Il nostro Paese che era esempio di allegria, dove le piazze, le strade i giardini pullulavano di bambini vivaci, allegri e chiassosi che correvano per le vie, vestiti magari semplicemente, ma pur sempre belli. Gli operai percorrevano le strade cavalcando la bicicletta, la Vespa o la Lambretta mentre cantavano l’ ultimo motivo di successo o quella canzone imparata sotto la naia. Ora, sempre più numerosi sono i vecchi e la gente di mezza età a spasso con la loro prole al guinzaglio. Bell’ avvenire ci attende!
Ormai confondiamo i valori di una volta; li abbiamo persi di vista. Quali valori? Quelli che rendono degno l’ essere umano. Quelli che altri perseguono; se continuiamo così l’ India, la Cina ed altri Paesi in pieno sviluppo che crescono al fantastico tasso del 10% all’ anno, fra un po’ verranno a colonizzare le nostre vecchie e presuntuose città; ci insegneranno che per continuare sulla strada del progresso c’è una sola direzione: verso l’ alto, nella costruzione, edificando giorno per giorno, pietra sopra pietra, mattone sopra mattone, un gradino alla volta, per realizzare una società migliore, che sappia riconoscere nel lavoro il vero motore propulsore del progresso. Una società non potrà né mantenersi, né sopravvivere sotto l’insegna del pessimismo. Quale società può sostentarsi se i suoi membri non credono più a se stessi, nelle proprie capacità ed abilità di creare, di fare, di produrre e non solo di consumare o di distruggere o lasciarsi estinguere in compagnia dei bei cagnolini di razza?
I nostalgici del totalitarismo, di quel tragico periodo del capitolo chiuso e che si è concluso con la demolizione del muro di Berlino, non ne sono ancora convinti. Ebbene coloro che non riconoscono i propri errori commessi durante gli anni della storia recente, vadano a vedere cosa sta succedendo in Cina, in India e perfino in Russia, dove dopo decenni di insistente lavaggio del cervello agli individui di quasi due generazioni, la popolazione, dopo aver sofferto i famigerati effetti dei metodi adottati dallo stato totalitario, ha finalmente capito e scopre di nuovo, e con quale entusiasmo, il piacere di scegliersi il lavoro, di vivere, di prosperare, seguendo quell’ antico principio che premia i risultati dello sforzo, scopre il vecchio insostituibile modello che riconosce il giusto merito dell’ azione individuale.
E’ tempo che qualcuno rifletta su ciò che è stato fatto, anzi so ciò che è stato dis-fatto. La disgrazia, come al solito non ha paternità, è sempre orfana. Ma i veri orfani di questa tragedia sono coloro che hanno inneggiato al collettivismo. Sono loro che hanno distrutto ciò che l’essere umano ha di meglio: la fiducia, la speranza che producono l’entusiasmo, la fonte della forza per continuare a costruire nell’ ammirazione dell’opera dei migliori e non certo nell’invidia per chi raggiunge il successo. Sì, certo erano mossi dalle buone intenzioni, è pur vero; ma anche l’inferno è lastricato di buone intenzioni. Essi credevano più alle idee che all’esperienza; hanno promosso, stimolato ed esaltato il “non lavoro” ed ora, con la gallina sterile, rischiamo che di “non lavoro” i nostri posteri si debbano accontentare.
E’ agli ultimi bolscevichi che bisogna ricordarlo; verifichino questi prelati del collettivismo come fanno i loro vecchi compagni che ugualmente hanno creduto, inutilmente, nel marxismo. Ci dicano poi se è con gli scioperi, con le manifestazioni, con le rivolte di piazza che questi Paesi emergenti stanno risolvendo i loro problemi di secolare povertà, di endemica miseria e di fame che fino a ieri dominava le loro contrade, anche da loro la demagogia ed il corporativismo li avevano quasi soffocarli.
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