visto da Tullio Pascoli
7 Ago 2004
E’ tornato di attualità pure Cavour; colui che voleva fare gli Italiani. Come? Non si sa; cambiandoli, naturalmente. Ma, ci si può illudere di cambiare un Popolo con un colpo di bacchetta magica, o forzandolo a rinunciare alla propria identità, alla propria indole? La magia non è riuscita in fondo nemmeno a Mussolini che ci aveva creduto. Pur ascoltato ed osannato, alla fine, si era rassegnato pure lui, dicendo che convincere gli Italiani non era difficile, ma solo inutile. Infatti, i risultati ottenuti erano superficiali, illusori o solo virtuali. Credeva d’ingannare gli Italiani e questi facevano finta di credergli. Alla prima occasione, gli hanno girato le spalle, festeggiando il macabro evento, in piazza ed anche in modo del tutto indegno. Eppure, un lento e continuo cambiamento è pur sempre inevitabile; tuttavia, attendersi che da un giorno all’altro gli Italiani diventino esemplari cittadini disciplinati come gli Inglesi, organizzati come i Tedeschi, eruditi come i Francesi etc. etc. è pretendere un po’ troppo.Ciononostante, nessuno dubita del grande cambiamento avvenuto nel frattempo. Quali immensi progressi economici abbiamo sotto gli occhi: chi non ha una macchina se non più di una? L’ analfabetismo è quasi estirpato e sulle bancarelle non si vedono più nemmeno quei “bei” fotoromanzi che per tanti anni hanno caratterizzato le letture preferiti degli Italiani! Armadi e cassetti pieni di abiti; dove appendere tante belle cravatte? Ai gioielli veri si sono aggiunti quelli falsi altrettanto belli; poi la bigiotteria firmata. Mangiavamo polenta o pasta due volte al giorno, oggi andiamo al ristorante sempre più spesso.
Le statistiche confermano: da popolo di bassotti, in termini di struttura con la nuova generazione ci avviciniamo alle medie europee. Mangiamo, dunque, di più e probabilmente anche meglio; anzi, forse troppo: da malnutriti, cominciamo ad avere pure noi il problema dei bambini obesi, mentre una volta, per strada, c’erano gli sciuscià che ora siamo ridotti ad importare… anche quello. Se proprio qualcuno non riconosce le nostre mutazioni, deve pur ammettere che qualcosa è veramente cambiato.
Questi aspetti esteriori, almeno, stanno a dimostrare come un livello di vita è decisamente migliore; possiamo considerarci soddisfatti? No, c’è troppo da fare ancora, molta strada da percorrere; infatti, gli indici da migliorare sono ancora numerosi. Ma fra questi soprattutto uno caratterizza il nostro ritardo: non abbiamo ancora imparato ad essere cittadini, propriamente detti, per intenderci; infatti, ci manca la coscienza della nostra individualità civica; non siamo consapevoli dei nostri singoli ruoli, dei nostri doveri di persone emancipate, coinvolte non rendendoci conto delle nostre particolari responsabilità. Per questo, quando le cose non vanno bene, non riusciamo a concepire che parte delle cause dei problemi non dipendono solo e sempre dagli altri, ma che ad essi anche indirettamente contribuiamo proprio noi sia per via della nostra assenza come pure in seguito alla nostra azione diretta e la folla, distratta od indifferente non lo capisce. Eppure, siamo parte integrante del modello, anzi siamo noi stessi, con le nostre ataviche abitudini e con i nostri incalliti vizi a condizionarlo. Siamo e non possiamo essere altro che lo specchio della nostra stessa realtà. Responsabilizzare i nostri politici? Non è troppo elementare scaricare tutto sugli altri? Ed il nostro ruolo, forse non centra? Anzi, dal momento che siamo noi a sceglierli e ad assicurare loro la delega, dobbiamo considerarci se non proprio complici almeno colpevoli di connivenza. Dunque, non possiamo negare che molto dipende anche da noi, dalle nostre scelte.
Una volta si diceva “piove governo ladro“… le nuove generazioni non responsabilizzano più i governanti dei normali fenomeni meteorologici; ma non per questo possiamo concludere che siano politicamente mature. I partiti hanno cambiato le sigle, forse solo come la volpe cambia il pelo, ma di concreto, nei soliti eterni discorsi e nei metodi dei rispettivi integranti è cambiato poco, forse, ci aggiungono quale espressione presa in prestito da qualche lingua straniera che magari non conoscono nemmeno. Qualcuno ha innovato, cambiando di stile ed ha cercato d’inventare un nuovo partito, diverso dagli altri; una nuova bandiera, coniando “slogan” nuovi e ed originali, diversi da quelli ormai usurati dal tempo; la gente premiando la creatività è accorsa con entusiasmo, ma per presto si rinnovavano le delusioni: non è una rodine che fa primavera.
Nonostante i grandi cambiamenti che hanno permesso alla globalizzazione di espandersi e di raggiungere i punti più lontani del pianeta, c’è ancora chi chiede – come si faceva nel deleterio passato – gli obsoleti controlli dei prezzi: al dettaglio, all’ ingrosso o perfino alla produzione, come se i costi si potessero condizionare a parole e non con i fatti concreti, come potrebbero essere le riduzioni delle imposte. Pare Incredibile e non sembra vero: vorrebbero che il potere pubblico continuasse a condizionare l’ economia politicamente; e ciò che è più grave, una grande quantità degli Italiani crede ancora all’ efficienza dello Stato – con la maiuscola – come se fosse qualcosa di sacro, trascendentale, capace di risolvere ogni problema con il potere della Legge – anche questa con la maiuscola a caratterizzarne la santità – od un decreto miracoloso, scavalcando quelle che sono le vere cause che generano gli effetti e la natura delle cose, o della nostra indole che detta le preferenze e con che si condizionano la domanda e l’offerta, ovvero la scarsità e l’abbondanza.
Siamo ancora fermi alle ormai largamente superate formule di Keynes. Lo Stato che ingloba tutto ma che di fatto non rappresenta nessuno se non altro che i più immediati interessi del corpo o dell’anima di quella macchina burocratica che ormai in tanti identificano con il potere della casta. E’ il motore di interessi del parafernale ingranaggio politico che si mantiene saldo in piedi, soprattutto per proteggere se stesso. Qualche isolato don Chisciotte si illude di poter strappare il Paese ai secolari metodi o vizi medievali, con la sola buona volontà o con i discorsi più o meno infiammati, ma il male ha radici troppo profonde. Troppi Italiani auspicano ancora ai nostri giorni che questa specie di profetico quanto malefico e complesso sistema accaparri sempre più incarichi e prerogative, invadendo aree che appartengono al particolare privilegio degli individui e della loro azione, il vero volano dello sviluppo e del progresso. Invece, l’ingombrante mastodonte è già troppo carico, lento e pesante, non è agile per natura e mole; si muove con difficoltà, tarda a partire e quando si dovrebbe fermare, come una grande petroliera che continua ad avanzare, anche quando non deve. Questa specie di piovra gigantesca dovrebbe abbracciare, con i suoi immensi tentacoli, ogni singolo segmento delle attività produttive, sociali, culturali o sportive, pubbliche o private; ma non è un abbraccio affettuoso è una morsa soffocante che non lascia respirare coloro che invece aspirano a produrre per distribuire.
Non basta, gli scrupolosi indottrinati attribuiscono all’ avido mostro privilegi fino ad entrare negli aspetti più intimi della vita privata del semplice suddito. Ricorrono alla demagogia per sedurre l’ingenua massa, ma quello che spacciano per carezze non è l’espressione di un amorevole affetto, ma uno sfiancante se non addirittura un mortifero amplesso. L’onnipresente e complicato dispositivo agisce in ogni settore, ed aspira a crescere in continuo, quando le tendenze dei Paesi moderni non solo raccomandano il suo esatto contrario, ma marciano a passi decisi decentralizzando e delegando poteri ai privati ai quali riconoscono maggiore versatilità, spirito creativo e capacità di adeguamento in maniera spiccia e dinamica. Da noi no: le solite prediche sulla collettivizzazione fanno ancora eco ovunque dove prevale la nostalgia di un inglorioso passato.
Tuttavia, uno stato – con la minuscola di proposito – moderno, efficiente, dinamico, competente e versatile dev’essere per forza moderato, discreto e non invadente; in un’espressione unica “minimo”, perché solo un modello di dimensioni ridotte riesce ad agire in modo efficiente e dinamico, dove può concentrarsi più attivamente su poche ma chiare e soprattutto limitate attribuzioni, senza evadere dalle proprie facoltà per intromettersi nella vita privata degli individui. Del resto, le grandi organizzazioni, anche private, in genere nella misura in cui si espandono perdono la propria capacità e la propria forza creativa e non sanno più gestire con la stessa disinvoltura le particolarità dei propri casi specifici. Quando provano a correre dietro alle aspettative dei consumatori, per adattarsi alle nuove circostanze del mercato, sovente dominate dai concorrenti più modesti ma più agili, i grandi si perdono nella giungla della propria organizzazione burocratica di cui sono gli autori e le vittime allo stesso tempo. Un esempio tipico e paradigmatico è costituito dal gigante dell’industria automobilistica GENERAL MOTORS che perde quote di mercato e competitività per mancanza di azioni adeguate ai momenti. Le grandi organizzazioni sono troppo lente perché troppo poco mobile: competenze e mansioni si accavallano, si confondono e le pratiche s’inceppano. Il mercato è dinamico e volubile, richiede azioni adeguate. Quanto più complesse,le organizzazioni, tendono a creare pesanti sistemi di controllo ed ognuno nell’organico, tende a difendersi senza rischiare di assumersi responsabilità oltre le proprie mansioni; e funzionari sono designati a controllare altri funzionari, dove molta gente è pagata per vigilare altra gente controllata da ispettori.
LO spirito d’iniziativa viene inibito ed ognuno opera nella difensiva, senza assumersi inutili responsabilità altrui; la fiducia passa in secondo piano, tutto si muove con la carta, solo moduli da compilare anche se oggi interviene più l’informatica, ma certe decisioni sono sempre troppo limitate e l’ingranaggio procede a brevi passi a velocità ridotta. Niente sensibilità, soprattutto per casi particolari, dove le competenze non sono bene definite o poco chiare. Allora, le gerarchie si moltiplicano e si perdono nei labirinti dei corridoi, in uffici pieni di individui che hanno solo fretta che il tempo passi, che aspirano soprattutto ad arrivare alla pensione. Nel settore pubblico tutto ciò si aggrava maggiormente; i funzionari delle amministrazioni, se possono, rinviano l’utente ad altri dipartimenti, altri settori che eventualmente indicano altri uffici ancora, dove altra gente che non sempre ama il proprio lavoro e non di rado agisce con indifferenza e svogliatezza. Non c’è spazio né sensibilità quando addirittura nemmeno un minimo rispetto per l’ individuo: è un mero codice dei tabulati di nomi di una interminabile lista; una piccola macchia nella folla, un membro del mucchio; l’eccezione cade nella grande ragnatela; un’immensa rete che trattiene tutto e da dove è difficile uscire.
Alla fine all’inefficienza si risponde con nuove norme e leggi, come se non ce ne fossero già troppe. Ma vale solo ciò che è scritto. La parola non esiste: carta canta!
Ma il nostro modello che deve muoversi in questo complicato groviglio non è solo, è in buona compagnia ed è’ un male tipico dei sistemi dei Paesi latini, condizionati dal diritto romano dove tutto ciò che si può fare dev’essere codificato e scritto; e dove le norme sono numerose e complicate, si tende a cercare qualsiasi maniera per superare gli ostacoli e non certo solo di oggi: già Tacito sentenziava che “Il più corrotto degli stati ha il maggior numero di leggi.” Un monito tanto attuale quanto inutile. Ma quando il potere è liberato dal guinzaglio dei diritti individuali, con il pretesto di dare a tutti quote uguali, finiscono di togliere di più a molti ed allora, qualcuno elabora la pianificazione con una specie di “controriforma” dove l’astratta entità amorfa chiamata “Stato”, acefala e senza identità tangibile, si incarica dei dettagli non solo dei vivi, ma anche dei morti e perfino di chi non è ancora stato concepito e deve nascere in un ipotetico avvenire. Tutto diventa pubblico anche le questioni intime e private: dalla proprietà ai contratti volontari, dall’ istruzione di ogni grado alla salute, dalla previdenza alla sicurezza ed al benessere del singolo e dei suoi successori, dei crediti e degli impegni, tutto è soggetto all’ approvazione del burocrate designato che approva la concessione, che delibera l’approvazione, come se fossimo tutti una scolaresca di bambini incapaci ed irresponsabili. Eppure ci riconosce un’infinità di diritti, liberando gli individui da molti doveri e quindi dalle rispettive singole responsabilità.
Esiste una ricca quanto didattica bibliografia sui limiti delle prerogative del potere pubblico, ma noi siamo pigri, preferiamo starcene al nostro posto senza scomodarci; lasciamo, quindi, fare agli altri in nostra vece. Potremmo consultare fonti per letture capaci di illuminarci, speiegando come il potere politico deve essere limitato per poter risultare efficace. Vasta scelta di lettura è disponibile presso editori come www.liberilibri.it oppure www.libreriadelponte.com con nunmerosissimi titoli sul tema. Autori di ieri e di oggi, propongono interpretazioni sulle ambiguità che i nostri sistemi da secoli coltivano e preservano: Bruno Leoni, LA LIBERTÀ E LA LEGGE, pubblicato molto prima in inglese (FREEDOM AND THE LAW), noto in tutto il mondo è ahimè quasi sconosciuto in Italia. Il francese Alain Peyrefitte già ministro della V Repubblica, autore di LE MAL FRANÇAIS, disserta sui problemi latini, soprattutto sulla mancanza di fiducia che impera; ne LA SOCIETE’ DE CONFIANCE (La Società della Fiducia) mette a nudo le origini del male che produce la nostra incapacità di capire i meccanismi del mercato e dello sviluppo; il migliore se non l’unico sistema mosso dall’ ottimismo capace di guidare verso il progresso scegliendo lavia e le modalità più naturali e veloci.
Due autori, dunque, che la vulgata della nostra ” Kultura ” non riconosce; altrettanti autori stranieri o nostrani sono diventati innominabili; colpevoli del peccato di esprimersi a favore degli individui e contro il collettivismo, sono stati condannati all’ostracismo, mentre la loro dottrina predicava le teorie di Marx, quando già nel 1919 il filosofo Spengler avvertiva che in 50 anni Marx sarebbe stato solo noioso. Appena tre anni dopo Ludwig von Mises confutava quelle teorie in modo ancora più eloquente, annunciando profeticamente, nero su bianco, in SOCIALISMO – con oltre 70 anni di anticipo – l’inevitabile fallimento del modello sovietico, descrivendone in modo chiaro le ragioni: l’impossibilità di determinare i prezzi dei prodotti e e dei servizi, in assenza del libero mercato. Eppure, ancora oggi, persone oltremodo colte, difendono quella inconsistente retorica idealista e se non bastasse, esaltano perfino quel tragico evento costituito dalla Rivoluzione Francese che la stessa storia si è incaricata di condannare.
Dell’opera di Benjamin Constant, invece, si conoscevano solo pochi stralci; è rimasta nascosta fino al 1980; scoperta quasi per caso, oggi è disponibile integralmente sotto il titolo PRINCIPES DE POLITIQUE; (Principi di Politica) è una delle opere più complete del liberalismo; e chi la conosce? Nel saggio, dopo aver vissuta quel disastroso avvento, l’autore ridimensiona i valori di quella nefasta Rivoluzione Francese collettivista, proprio in difesa della libertà degli individui, e critica senza mezzi termini l’ invadenza dello Stato. Purtroppo, per il pensiero dominante Benjamin Constant è tanto ignoto quanto scomodo; se altri intolleranti rivoluzionari lo avessero letto prima, forse, avremmo potuto risparmiare l’altra inutile e tragica esperienza, quella della dolorosa rivoluzione di ottobre. Eppure, conoscevamo Bentham e Tocqueville. No, ci volevano dei socialisti per aprirci gli occhi: Albert Camus, Ignazio Silone, Raymond Aron, François Furet, George Orwell e perfino il pentito Karl Popper come tanti altri, molti dei quali si sono convertiti al liberalismo al rientro dall’ Unione Sovietica delusi e scandalizzati, mentre gli ambigui Sartre, Togliatti e compagni, pur sapendo avevano preferito tacere…
Ora, ci si ricorda di Cavour da molti consuiderato come esempio paradigmatico del liberalismo, pur essendo la sua liberalità un po’ dubbia. Oggi se ne parla perché dopo chevano “fatto” l’ Italia bisognava “fare gli Italiani“. Ma come, ci chiediamo noi, gli Italiani non c’erano già allora? Già, così come oggi avevano tutti le loro particolarità e preferenze. Parlavano lingue, dialetti diversi spesso senza nemmeno capirsi e quando si capivano avevano accenti distinti e molto caratteristici, pur riconoscendosi tutti spontaneamente come veri Italiani. Ancora oggi Ferraresi, Napoletani, Palermitani, Torinesi, Veneziani od Udinesi e via dicendo, hanno tutti le loro particolari identità locali, ma non per questo hanno rinunciato alla propria identità nazionale. Certi atteggiamenti – sovente abbastanza folkloristici – in voga oggi, sono solo delle specie di flatulenze politiche generate da una diffusa insoddisfazione per il consumato modello centralizzatore che domina il palcoscenico nazionale.
Perché bisognerebbe cambiare gli Italiani, dunque, se sono di indole diversa ed in questa loro diversità si riconoscono d sempre? Non basta questa benedetta specie di Unione Burocratica Europea a volerci rendere tutti più o meno uguali? La diversità per caso è un male? Certamente no! Al contrario, infatti, essa non sottrae, bensì somma. Carlo Cattaneo, aveva intuito già allora il valore di questo nostro ricchissimo patrimonio costituito dalla diversità; infatti, difendeva l’ idea di una Nazione Federale che non distrugge, anche completa.
La polemica sul federalismo in questi ultimi anni si è inasprita perché nel vuoto esistente, alcuni – una piccola minoranza – se n’è impadronita e si è fatta interprete di un esagerato sentimento di esasperazione, portando l’ ideale ad estremi addirittura farseschi. Ma cosa c’è di sbagliato nel federalismo? Perché non guardarsi attorno; non ci sono esempi positivi in giro per il mondo? Germania, Svizzera, lo stesso Regno Unito; Stati Uniti, Canada, Brasile, Argentina, per non arrivare fino in Australia. Chi conosce queste Nazioni sa pure come i loro abitanti sono fieri del proprio Paese, anzi, sono più patriottici di noi! I loro modelli non minacciano l’ unità, al contrario! Ed il nostro patriottismo dov’è? Esso non termina sull’uscio di casa nostra? Ed in quale simbolo possiamo depositare la nostra identità, nelle bandiere con falce e martello od in quelle un po’ come dire… equivoche iridate?
Chi si allarma lo fa per pregiudizio. Siamo in molti ad amare il nostro Paese; e nonostante le apparenze e le chiacchiere apprezziamo i conterranei di ogni regione, provincia e città anche quando non ne intendiamo il linguaggio. Nella cultura di ognuno di loro si cela una grande e particolare lezione oriunda del frutto di tante esperienze regionali storiche e sociali intrinseche che si aggiungono all’ immenso patrimonio della nostra vecchia Italia per formare tutta una tradizione comune anche se eterogenea. Perché non riconoscere le secolari diversità che di fatto ci distinguono? Possiamo ignorare i singolari valori delle diverse identità che di fatto abbiamo accumulato nei secoli e che sono il patrimonio di una spontanea evoluzione storica millenaria? Perché passare una spugna sul nostro passato? Quella memoria è l’orgoglio dell’ eredità che ci giunge dai nostri avi; il nostro ricco patrimonio che ci accomuna.
Un modello moderno, decentralizzato, potrebbe costituire un grande passo verso la comprensione dei valori liberali. Uniti da fraterna tolleranza, comprenderemmo le singole particolarità che di fatto ci valorizzano e che alla fine dei conti si sommano. Saremmo certo più uniti, anche se tutti con le nostre caratteristiche ed espressioni linguistiche e soprattutto con le nostre specifiche autonomie e responsabilità, che non potrebbero più essere indiscriminatamente scaricate sul potere centrale. Non diamo credito a chi parla di separatismi. Sono in pochi, degli esasperati, estremisti.
Abbiamo urgente bisogno di modernizzarci; di dare uno nuovo impulso, un ritmo dinamico alle nostre attività, liberandole dalle deleterie pratiche burocratiche del vecchio modello. Adeguiamoci ai tempi; abbandoniamo quelle eredità medievali obsolete; mandiamo le vecchie carte da bollo, gli studi notarili, vecchiumi d’impronte borboniche in pensione. Volgiamo lo sguardo al nostro passato, quando le nostre città autonome prosperavano proprio mentre eravamo divisi in una miriade di piccolissime città-nazioni. Se, invece di combattersi, chiamando ognuna di esse un protettore straniero diverso a salvaguardia della propria indipendenza, avessimo fatto come i cantoni svizzeri che si sono liberaente uniti in una federazione, probabilmente, il nostro moderno sviluppo non avrebbe tardato tanto. L’unione culturale delle nostre identità non è mai mancata, nonostante le nostre diversità che sono un bene; ciò che ci è mancato è la spontaneità di un’unione che rispettasse le singole libertà ed autonomie.
Nell’ era dei calcolatori, usiamo ancora le marche da bollo da incollare sui protocolli che richiedono la convalida di notai. E’ possibile continuare con questi metodi bizantini nell’era dell’informatica? Ci vuole una “rivoluzione liberale”. Eppure, viviamo in un Paese dove i liberali, ovvero quelli che difendono gli ideali delle libertà individuali, sono ancora scambiati per egoisti o peggio per dei reazionari. Ci accusano di fascismo, quando proprio noi rappresentiamo la sua perfetta antitesi. Molti condannano il fascismo, ma censurano solo una parte di quella malefica ideologia. Troppi dimenticano che il corporativismo, di cui il fascismo è stato il massimo promotore, esportandolo addirittura in buona parte dell’ Europa ed in America Latina, ha – sotto molti aspetti – non solo ritardato il nostro sviluppo, ma anche quello di Nazioni lontane. Ed il corporativismo non è affatto morto insieme al fascismo; esso è più vivo che mai, anche e soprattutto nel nostro Paese, come nelle altre Nazioni latine. Tuttavia, questo tipo di fascismo non lo si condanna; è già stato sentenziato all’ostracismo; è tabù e non se ne può parlare. Edgardo Sogno eroica medaglia d’oro era un benemerito resistente liberale e lo hanno trasformato in delinquente!
Come liberarci, dunque, di questo peso al piede che ci condiziona ed induce tanti individui a vedere nel lavoro un castigo e non un’ opportunità di progresso? Nel lucro si vede un abuso e non il giusto premio al rischio ed allo sforzo. ll merito lo hanno sostituito con un certo genere di diritto delle minoranze chiassose di far tacere le maggioranze silenziose; ed ai legittimi diritti individuali hanno imposto le licenze, le concessioni. Possibile che gli umani si realizzino nell’ astensione dal lavoro? Nell’ ozio? Possibile che le opportunità possano essere ridotte alla disposizione di un potere opprimente e riduttivo? Ma che valori sono questi? Possibile che la massima aspirazione dell’ individuo risieda nella pensione? Dobbiamo rivedere il nostro modo di concepire la realtà e non lo faremo fino a quando una parte dei nostri intellettuali continuerà ad ispirarsi a Platone, a Campanella, a Rousseau, a Comte, a Marx, a quegli ipocriti di Sartre ed altri compagni dell’ attualità che oggi dopo la caduta del muro di Berlino, cambiano le sigle dei propri partiti, ma che, se fossero ancora in vita, continuerebbero a fare l’occhialino a Keynes se non addirittura allo stesso Lenin. Ahimè, dove sono finite le radici degli ideali di libertà?
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